Sin dai tempi più remoti, durante i freddi mesi invernali, l’uomo ha sentito la necessità di trasformare il tempo profano in tempo sacro, celebrando dei riti propiziatori, affinché la primavera ormai prossima, potesse portare il tanto atteso risveglio della natura. L’arrivo del cristianesimo si è sovrapposto a questi rituali, adattandoli alle esigenze liturgiche, ma senza mai cancellarli completamente. Ecco che le antiche tradizioni, forse di origine celtica, le possiamo ancora individuare nei vari momenti che scandiscono le celebrazioni del Santo patrono in alcune località montane della Valle di Susa, come ad esempio a Giaglione e a Venaus.
Qui, rispettivamente il 22 gennaio per San Vincenzo e il 2 e 3 febbraio per i Santi Biagio ed Agata, un gruppo di uomini si esibisce in una “Danza Armata”, meglio conosciuta come “la Danza degli Spadonari”. Durante tutto l’anno, Associazioni locali preparano la Festa, eleggendo le Priore ed allenando i danzatori, che dovranno esibirsi per le strade del villaggio e sul sagrato della chiesa, indossando dei costumi tipici che in parte sono moderni, come la camicia, la giacca o i pantaloni, ma che in parte sono di origine antichissima, come il grembiule e il copricapo, alto e coloratissimo, decorato con fiori e lunghi nastri, che si muovono durante le danze, in un rito propiziatorio che vede le sue origini nel calendario contadino delle popolazioni celto-liguri che abitavano il nostro territorio.
L’evoluzione delle danze armate ha attraversato trasversalmente la storia, inglobando simbologie cristiane, avvenimenti storici come ad esempio le invasioni saracene o le rivolte del popolo contro il feudatario tiranno.







La loro massima diffusione si colloca tra il XIV e XVIII secolo, per poi disperdersi sempre più, fino alla quasi completa sparizione. Nel Novecento Gruppi ed Associazioni locali hanno fatto ricerche e ricostruiti i vari momenti della danza. Questo tipo di folklore lo ritroviamo, anche se declinato in modi diversi, in tutto l’arco alpino, in Savoia, in Inghilterra, in Spagna, nei Paesi Baschi, in Germania ed anche in alcune danze del Sud dell’Italia (ad esempio la Taranta).
Gli elementi più arcaici che caratterizzano il rito sono: la lotta venatoria o bellica; il movimento della spada o di un’altra arma, come bastone, sciabola o mazza, contro gli spiriti ostili; l’arma che diventa uno strumento atto a favorire la fertilità, grazie ai solchi che vengono tracciati sul suolo, quasi a preparare la terra per la semina. E’ un modo per imitare alcune operazioni agricole, creare un clima magico che permetterà alla natura di germogliare e ai frutti di crescere. Le armi scacceranno la cattiva stagione, quella fredda, per lasciare il posto alla primavera, simboleggiata dai fiori e dai nastri dei cappelli e anche dal “Branc”, una sorta di ramo di circa due metri, addobbato con fiocchi e colori, simili al copricapo degli spadonari, che viene portato in processione da una Priora.
Gli elementi più moderni che sono stati inseriti nella danza sono il gioco tra antagonisti, specialmente la lotta contro i Mori o Saraceni e le rievocazioni storiche, come l’uccisione degli oppressori locali. I Mori rappresentano anche, da un punto di vista cristiano, il diavolo e il male. La vittoria sui Mori o Saraceni, rappresenta la vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Durante le celebrazioni del Santo Patrono, si portano in processione per le strade del paese, le reliquie dei Santi e durante la Messa si benedice il pane, simbolo di rinascita. Anche alcuni gesti dei danzatori, come il battere la spada sul tacco delle scarpe, oppure pulire la lama sul grembiule indossato sui pantaloni, simboleggia la pulizia dell’arma dopo il martirio del Santo.
Alcune figure della danza assomigliano alla Pirrica, danza guerriera dell’antica Grecia. Ad esempio la “Catena”, dove i danzatori si legano tenendosi con la spada, oppure la “Rosa”, un incrocio di spade che serve a sollevare uno dei partecipanti del ballo. Nel paese di Fenestrelle un giovane Arlecchino funge da disturbatore della festa fino a quando gli Spadonari non lo uccidono. Ma poi, come la terra rinasce ad ogni primavera, ecco che Arlecchino rivive, portato in trionfo sulla rosa di spade.

Il 20 gennaio a Chiomonte si festeggia San Sebastiano e durante la processione del Santo Patrono si porta per le strade del paese la “Puento” (Punta), una sorta di fuso rivestito di nastri colorati. In passato era un vero e proprio ramo di conifera tutto agghindato, a rappresentare l’albero a cui il Santo venne legato per il martirio. La “Puento” però, se slegata dal culto cristiano, ci porta ancora una volta indietro nel tempo, ai culti pagani legati alla fertilità e alla rinascita, simboleggiate dai nastri.

Anche nel Carnevale convivono i riti cristiani con quelli pagani. L’origine è sempre da cercare nel calendario agricolo. Il momento in cui le scorte cominciavano a scarseggiare davano inizio ad un periodo di carestia, che i Cristiani hanno associato alla Quaresima. Il travestimento, lo scherzo, sembrano essere un anello tra il prima e il dopo, tra la morte e la rinascita e il rinnovamento della natura, ma anche dell’uomo. Il momento che va dalla fine dell’inverno alla primavera rappresenta la necessità di purificazione, che per i Cristiani raggiunge il suo apice con la Pasqua di risurrezione. In un villaggio montano della Valle di Susa, chiamato Lajetto, dal 2010 si è recuperato il carnevale storico, che non veniva più celebrato da oltre 50 anni. I personaggi si dividono in “Belli” e “Brutti”. I Brutti sono una coppia di Vecchi e il Pajasso, che è il fulcro del rito carnevalesco. I Belli invece sono un Signore con una Signorina, degli Arlecchini, un Soldato e un Dottore.
Chiaramente i personaggi più antichi sono i Vecchi e il Pajasso, mentre Dottore e Soldato sono entrati nel Carnevale in periodi storici più vicini a noi, forse nell’Ottocento.


La presenza del Soldato serviva ad esorcizzare il servizio militare, la cui obbligatorietà toglieva braccia alla vita contadina, mentre il Dottore era una presenza necessaria per guarire dalle malattie. Invece il Pajasso discende dai riti antichi. Rappresenta l’inverno, la stagione fredda. Durante il Carnevale è lui a portare legata ad un bastone una gallina (oggi rigorosamente finta!) che verrà poi appesa ad un melo e lì sacrificata . Il sangue rosso che si sparge sul terreno simboleggia la rinascita e la fertilità o, secondo alcuni, la fine del Carnevale.

A Mompantero, località che dista pochi chilometri da Susa, tra il 31 gennaio e il 1 febbraio si fa il “Ballo dell’Orso”. L’orso viene interpretato da un abitante del paese, la cui identità rimane segreta. Travestito con pelli e maschera, si aggira per i boschi, fino a quando i cacciatori non lo catturano e poi, portandolo per le vie di Mompantero, cercano di renderlo mansueto. Secondo alcuni l’orso si può associare all’uomo selvatico, figura mitologica diffusa nelle valli alpine. In genere l’uomo selvatico ha delle conoscenze specifiche sulla produzione di formaggi e sull’allevamento del bestiame. Rivela agli uomini parte dei suoi segreti, ma questi ultimi molto spesso lo scherniscono e lui, nella sua semplicità, abbandona la scena per rifugiarsi nel bosco.
Durante la festa l’Orso viene reso mansueto con il bastone e, attraverso un imbuto infilato in bocca, gli si da del vino, fino a farlo ubriacare. Una volta ubriaco l’orso perde la sua aggressività e danza con la fanciulla più bella del paese, per poi essere lasciato libero dalle catene e raggiungere il bosco. La Primavera è arrivata e lui, simbolo dell’Inverno lascia il posto alla bellezza, ai profumi dei fiori e alla luce del sole.
Infine, il 24 aprile, a primavera inoltrata, a San Giorio si rievoca l’uccisione del tiranno che pretendeva lo Ius Primae Noctis con le novelle spose. Saranno proprio gli Spadonari, con i loro costumi colorati, ad uccidere il feudatario e ad esibirsi in danze propiziatorie davanti alle Priore, alla Mignonna, ovvero la giovane sposa e allo sposo, detto Abbà.

Durante queste feste ci sono dei momenti conviviali organizzati e preparati dalle Priore. Vengono allestiti dei lunghi tavoli dove i partecipanti alla festa possono gustare le specialità locali..
Una menzione particolare va fatta al “San Sebastiano” che è il nome del vino del ghiaccio prodotto per la prima volta a Chiomonte nel 2006.
Le uve del vitigno autoctono Avanà vengono lasciate sui tralci fino a gennaio, quando sono vendemmiate a mano ad una temperatura di – 8 gradi. Gli acini sono pigiati ancora ghiacciati e dopo un processo di decantazione il mosto fermenta e riposa fino a settembre quando il vino è pronto ed imbottigliato. Il suo gusto dolce si sposa con il dessert, ma c’è anche chi lo apprezza come aperitivo.


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