Liguria, terra di santi, poeti e navigatori. Lo sguardo è rapito dallo splendore del mare, trova conforto nell’essere cullato dal suo dolce sciabordio e si lancia avventuroso oltre la linea dell’orizzonte. La Liguria come riviera, cantata e raccontata attraverso le storie dei suoi più illustri abitanti o con le parole e le immagini di celebri viaggiatori che non perdevano l’occasione di fermarsi lungo il suo litorale. Tra Settecento e Ottocento, giovani artisti e letterati eleggevano la costa ligure a tappa obbligata del loro Grand Tour, momento conclusivo del percorso di educazione umanistica dei rampolli delle famiglie aristocratiche del tempo, il cui scopo era indagare e conoscere il mondo e la sua umanità. Intere pagine di diario romanzavano la vita delle città marinare e dei loro abitanti, mentre la montagna ligure veniva superficialmente descritta come luogo ostile, la cui “selvatichezza” ne sconsigliava la visita. Era ampiamente condivisa la percezione di un forte contrasto tra l’ambiente della costa e quello della montagna, una diversità percepita come linea di demarcazione tra civiltà e inciviltà. Eppure la Liguria non è mai stata solo una terra rivolta al mare. Proprio lontano dalle strade polverose e trafficate, il territorio ligure, spogliato di adorni e ricchezze, mostrava il suo lato più intimo ed essenziale, l’umile dimora di un volgo disperso. Ancora oggi basta allontanarsi un poco dalle spiagge affollate e si apre davanti agli occhi un panorama fatto di boschi, altopiani e vallate, dove si respira una densa atmosfera da tempo sospeso.

Ebbene sì, popolo di contadini, i liguri. Ma cosa coltivavano? Certo non cereali. Le grandi pianure coperte di bionde messi ondeggianti al vento erano materia esclusiva per pittori surrealisti, frutto dell’onirica deformazione di un territorio da sempre avaro di spazio coltivabile. Un agronomo svizzero, Lullin de Chateauvieux, fu talmente colpito dall’arretratezza della Val di Vara che giunse a definirla “il più malinconico ed infertile angolo della Liguria nelle ime sue parti”.
Qualche fascia di mezza montagna baciata dalla buona sorte poteva al massimo godere di un po’ di grano, orzo e, più in alto, segale e avena. La cultura contadina ligure si è sviluppata piuttosto intorno alle colture arboree, olivo e castagno soprattutto, e all’allevamento, in prevalenza di ovi-caprini.
L’olivo ha trovato dimora sul versante marittimo, riuscendo a risalire le valli sino ai 500 metri di quota, e ancora prospera nelle alte Valli Nervia, Argentina e Arroscia a Ponente, Fontanabuona, Sturla, Graveglia, Vara e Magra a Levante. Il castagno dominava invece il versante padano tra i 400 e i 700 metri, ma c’era anche chi lo coltivava verso il mare e ancora oggi rimangono lembi di castagneto da frutto sopra Portofino e a San Romolo sopra Sanremo. Due alberi, due colture, due colonne portanti intorno alle quali sono cresciute e vissute intere comunità. Purtroppo, i cambiamenti intervenuti nella vita quotidiana durante la seconda metà del XX secolo hanno quasi fatto dimenticare lo stile di vita contadino che aveva attraversato quasi indenne i turbolenti secoli precedenti.

Testimonianze della cultura dell’olivo rimangono nelle fasce in vista del mare e nei frantoi, ancora diffusi nell’Imperiese anche se spesso abbandonati. La frangitura delle olive veniva ottenuta ad acqua o “a sangue”, cioè sfruttando il lavoro di alcuni animali, muli per lo più, che girando in tondo bendati facevano ruotare la grossa macina in pietra.

Il castagno ha invece sfamato le popolazioni dell’intero Appennino Ligure per secoli, tanto che ancora oggi, in alcune località dell’entroterra, il termine dialettale èrburu (albero) significa proprio castagno. Di castagneti da frutto oggi ne restano purtroppo molto pochi: sul versante nord del monte Ramaceto, intorno a Borzonasca, in Val di Magra, in Val Bormida, a Pareto in Valbrevenna, a Sanguineto di Montoggio, in Valle Arroscia, sulle alture di Sanremo. Così come non esisteva oliveto senza frantoio non c’era castagneto senza secchereccio (albergo). Il più delle volte allocato all’interno della cascina, in altri casi isolato nel bosco, era il luogo deputato alla trasformazione della castagna in alimento, come farina o come frutto secco. Le castagne venivano stese su un solaio in travi di legno abbastanza distanziate tra loro da permettere che il fuoco acceso nel locale sottostante le seccasse. Una volta seccate bisognava pulirle, cernirle, portarne parte ai mulini per ricavare la farina. Era certamente più facile controllare il fuoco, che doveva stare acceso giorno e notte per molti giorni, quando il secchereccio era nella casa, ma era più comodo averlo nel bosco per sfruttare in loco la legna da ardere. Accadeva così che i contadini dovessero rimanere lontani da casa intere giornate.

La valenza del castagno andava ben oltre i suoi pur preziosi frutti. Il castagneto veniva infatti gestito e sfruttato per l’allevamento dei maiali, alimentati coi frutti di seconda scelta e tenuti allo stato semibrado. Tale sistema di allevamento, almeno durante il Medioevo, divenne centrale nell’economia familiare di sussistenza, a tal punto che si diffuse l’uso di indicare l’estensione di un bosco secondo il numero di maiali che esso poteva nutrire.
Infine, il castagno garantiva un’altra preziosa risorsa: il legno. Quest’ultimo veniva usato per costruire i più vari utensili. Nella valle dell’Orba si incontrano ancora certe cascine coperte di scàndue (le scandole), tavole di castagno resistentissime alle intemperie, e circondate dalle ciuènde, staccionate costruite con pali e rami di castagno. Nel Finalese, dal legno di castagno si ricavavano i pergolati per le viti (le teùppie). Ampiamente diffuso era l’utilizzo della corteccia degli alberi giovani per grondaie e canali per l’acqua, mentre con i tronchi più solidi si costruivano recipienti, infissi, finestre, porte, madie e bancà, i grandi cassoni col coperchio ribaltabile dove venivano riposti il pane, la farina di castagne e la crusca per il bestiame.

Sia alle quote dell’olivo sia nelle valli più interne del versante padano, l’economia contadina ligure seppe anche ingegnarsi per strappare spazi idonei alla coltivazione di ortaggi, alberi da frutto e vite. Peri e meli crescevano rigogliosi nel territorio del castagno e in Val Graveglia, dove si era soliti produrre una bevanda poco alcolica, una specie di sidro, il vin de pume, che poteva sostituire il vino d’uva dove la vite non cresceva.
Le quote più alte, dove gli olivi morirebbero di freddo e anche i castagni tremerebbero non poco, venivano invece destinate all’allevamento del bestiame. Ma le aspre montagne dell’entroterra ligure non hanno mai regalato nulla. Infatti, era necessario un lavoro lungo e faticoso per disboscare e spietrare i terreni potenzialmente più adatti al pascolo. I prati-pascoli così ricavati erano gestiti in modo sapiente e lungimirante, senza la necessità che qualche piano di pascolamento definisse a priori turnazioni, carichi di bestiame e periodi per la fienagione. La conoscenza e il rispetto dell’ambiente erano e rimangono gli ingredienti imprescindibili dell’unica ricetta che sappia garantire un uso sostenibile delle risorse di un territorio, soprattutto se fragile come quello dell’entroterra ligure.

Una zootecnia di resistenza, povera di pascoli aperti ma in grado di sfruttare in modo ottimale vitto e alloggio forniti dal bosco. Ogni singolo elemento rappresentava una preziosa risorsa, persino le foglie. Quest’ultime venivano raccolte mediante un’operazione detta scalvatura, con cui in estate si tagliavano i rami bassi e medi dei cerri. Ciascuna pianta subiva un taglio ogni quattro anni e il fogliame veniva raccolto secco in autunno, per farne strati nelle stalle e, un tempo, per riempiere materassi e cuscini.
Anche il fieno raccolto percorreva la via verso casa per essere conservato nelle stalle, che in inverno diventavano anche luogo di aggregazione, sia per occuparsi della manutenzione degli attrezzi da lavoro sia per trascorrere al caldo le lunghe ore buie e fredde della giornata, crogiolandosi al tepore naturale e gratuito prodotto dal bestiame.
La casa contadina era concepita non solo come luogo di soggiorno e riposo, ma come uno strumento di lavoro, al quale facevano riferimento tutte le attività fondamentali: l’essicazione delle castagne, la torchiatura del vino, la spremitura dell’olio, la mungitura del bestiame e la lavorazione del formaggio. Non è però semplice descrivere una tipica casa contadina dell’Appennino Ligure. La tipologia e la forma dell’abitazione cambiava da zona a zona, risultando in stretta relazione sia ai materiali costruttivi reperibili sia al clima. La copertura, ad esempio, variava dalla pietra locale all’ardesia, dalla paglia alle tegole in legno, fino alle più moderne “marsigliesi” in cotto.
Nonostante tutto, alcuni elementi risultavano sempre presenti. Una grande porta in legno immetteva, senza atrio, in locali divisi da tramezze fatte in canne spalmate di sterco di vacca e calce o, nel migliore dei casi, da tavole di legno o da mattoni. I pavimenti erano di calce e sabbia, o coperti da lastre di ardesia. Vi era un solaio per il piano alto, e ballatoi di tavole per seccare la frutta al sole e asciugare la biancheria. Travi di sostegno in larice o castagno, e nicchie nei muri come armadi. Accanto alla casa si trovava il fienile e sotto la stalla. Al centro del vano era collocato il focolare, costruito con grossi lastroni di pietra o mattoni refrattari, isolato dall’impianto di legno da uno strato di cenere. Accanto al focolare era posto l’alare, sul quale si poggiavano grossi ceppi di legno perché potessero bruciare meglio e treppiedi di ferro di diverse dimensioni adoperati per mettere a scaldare le pentole. Fissata alla trave principale, scendeva dal soffitto un sistema di ganci e di anelli di ferro chiamato cadenna, alla quale si appendeva il paiolo in rame per cuocere la polenta, oppure la pentola per fare la minestra e quella per il pastone alle bestie. Un vecchio secchio, dietro al focolare, serviva a raccogliere la cenere da utilizzare per il bucato. Piatti, scodelle, mestoli e pentole in rame erano appesi al muro o poggiati sugli scaffali. Un mobilio senza pretese, perfettamente funzionale nella sua assoluta essenzialità.
I mesi invernali, quando i lavori nei campi si interrompevano e le sere erano lunghe, era bello riunirsi intorno al focolare a raccontare storie. L’ora della cena arrivava presto, alle cinque e mezza, e poi via a narrare. I più bravi sfoggiavano un ricco repertorio, con decine di racconti che proponevano anno dopo anno con poche ma sorprendenti varianti. Si trattava di proverbi, brevi storielle moraleggianti, lunghi episodi di vita vissuta, magari da coloro che emigravano stagionalmente e tornavano arricchiti di esperienze e ricordi, oppure storie fantastiche con la classica morale finale, spesso narrate per incutere timore ed impartire così una lezione ai più giovani.
Come in molte altre tradizioni orali, anche in queste storie era evidente la mescolanza di elementi cristiani e motivi pagani, eredità inconscia di epoche in cui la natura era popolata da divinità e demoni. Infine, non mancavano gli stolti da canzonare, di regola coloro che abitavano il paese vicino o quello più impervio della valle, come accadeva per gli abitanti del piccolo borgo di Daglio, oggetto di presa in giro nelle storielle della Val Borbera.
Oggi di stalle e armenti in montagna ne restano pochi, ma la diffusione passata dell’allevamento di sussistenza è testimoniata dalla ragnatela di piste e tratturi ancora presenti sui prati spogli di certi monti, dai resti dei ricoveri pastorali in pietra, dalle caselle del Ponente ligure e dalle vecchie capanne a un solo spiovente ancora rabberciate in mezzo ai boschi.

Ogni valle si identificava intorno ad una o più produzioni casearie di altissima qualità, molte delle quali dimenticate per decenni e riportate alla luce solo grazie all’encomiabile impegno di qualche coraggioso locale. Tipicità finalmente valorizzate e negli ultimi anni sempre più apprezzate come produzioni di nicchia da esperti del settore e dal crescente movimento turistico enogastronomico. Un lungo elenco che annovera formaggi freschi come la prescinseua, cagliata usata nel ripieno dei pansoti e nella focaccia di Recco, e il tumassu di Savignone. Di latte ovino e caprino sono invece le peculiari furmagette delle valli Scrivia e Stura, la giuncata savonese (così chiamata perché sgocciola distesa su uno stuoino di giunchi), la saporita toma di Mendatica e il caprino stagionato nelle crotte, le tipiche cantine delle malghe della Valle Argentina. Infine, non possono non essere menzionate le molte ricotte, da quella di San Stè al recotu di vacca della valle Scrivia, per non parlare del buonissimo bruss di pecora brigasca di Triora e Cosio d’Arroscia.

Qualche fetta di formaggio era tutto ciò che gli uomini portavano con sé durante le lunghe ore di lavoro nei campi, in attesa di potersi rifocillare la sera di fronte a un piatto caldo.
Quella contadina era una cucina povera ma decisamente sostanziosa e appetitosa: ricette dalle lunghe cotture e dall’uso sapiente dei prodotti delle fatiche quotidiane. Le donne erano solite raccogliere le molteplici erbe che crescevano spontaneamente ai margini delle fasce (orti) per la preparazione del tipico preboggion, mentre nei paioli lasciavano cuocere lentamente le castagne, nel latte o per la preparazione della zuppa di castagne grasse, arricchita da carne di maiale lessata e fette di pane casereccio tostate e soffregate d’aglio. In Valpolcevera il maiale era protagonista del Berodo con cipolle, una ricetta antichissima, le cui radici affondano al tempo dei romani. Si trattava di un insaccato di sangue fresco e latte non scremato con l’aggiunta di pinoli, uvetta, sale, pepe e dadini di lardo che venivano collocati in un budello fatto con l’intestino del maiale. Non mancavano però piatti più fini, oggi divenuti ricercati e gourmet, come le trofiette di castagne condite con il pesto di fave (marò).

La vita tra le montagne liguri era una continua e dura lotta per la sopravvivenza, indissolubilmente legata al tempo scandito dalle stagioni e ai ritmi di una natura aspra e povera di risorse. Nel corso dei secoli, uomini e donne hanno lavorato instancabilmente per ritagliarsi una nicchia abitabile. Una laboriosità perenne, dall’alba al tramonto della giornata e della vita, ha modellato un paesaggio che abbiamo il dovere di custodire e valorizzare, un libro prezioso le cui pagine sono i testimoni dell’antica civiltà contadina e pastorale. Pagine che possiamo sfogliare nella penombra dei castagneti, sui crinali dei monti, negli agglomerati rurali, camminando lungo i borghi storici. Un grande museo diffuso su tutto il territorio che caratterizza l’autenticità, l’unicità e la bellezza della Liguria.
Nel campo del recupero e mantenimento della cultura locale assurgono protagonisti i numerosi musei etnografici dislocati in varie località dell’entroterra.
A Sciarborasca, una piccola frazione di Cogoleto elegantemente adagiata tra i monti, è possibile visitare il museo “Tipica Casa Contadina Ligure”, allestito all’interno di un’originale casa contadina fedelmente ristrutturata.
Il museo dell’olivo e della civiltà contadina di Arnasco raccoglie testimonianze della produzione e della coltivazione dell’olivo, con oltre 500 oggetti, tra cui un frantoio del 1796.
La “Casa del Pastore” di Mendatica e il “Museo della Castagna” di Montegrosso Pian Latte, entrambi parte del museo diffuso “I volti dell’Ubagu” in Alta Valle Arroscia, ripropongono un fedele spaccato dell’attività agricola e pastorale della zona.
Il museo della cultura contadina dell’Alta Val Trebbia accompagna il visitatore in un viaggio nel passato, alle radici della storia di un popolo e del suo territorio.
Questi sono solo alcuni dei percorsi museali presenti in Liguria e se siete interessati a visitarne alcuni o a percorrere un itinerario etnografico alla scoperta della cultura contadina ligure non esitate a contattarmi!
Sono Luca Caviglia, Accompagnatore di Media Montagna iscritto al Collegio delle Guide Alpine del Piemonte e membro del gruppo di accompagnatori e guide alpine “Hike&Climb Liguria”.
Nato a Genova nel 1991, mi sono prima laureato in “Scienze Naturali” presso l’Università degli Studi di Genova e successivamente ho conseguito il titolo Magistrale in “Evoluzione del comportamento animale e dell’uomo” presso l’Università degli Studi di Torino, con specializzazione in ricerca e gestione di carnivori e ungulati.
Amo la montagna in tutti i suoi molteplici aspetti e ogni mia escursione vuole essere una tavolozza piena di colori, con cui dipingere insieme ai partecipanti le meraviglie del nostro territorio.
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