Il mito della femme fatale

Gustave Klimt dipinge la prima tela relativa al mito di Giuditta e Oloferne già nel 1901. La storia che narra le vicende della giovane vedova Giuditta pronta, per salvare la sua città dagli Assiri del re Nabuconodosor, a sedurre il generale Oloferne, salvo poi tagliarli la testa nel sonno, era un racconto biblico molto rappresentato dai grandi del passato – quali ad esempio Caravaggio, Botticelli e Michelangelo – ma mai in modo così decisamente innovativo come fece Klimt.
Giuditta II, 1909, olio su tela, 178×46 cm; Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, Venezia.
Se confrontiamo questa Giuditta conservata presso la Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro con quelle dei grandi maestri notiamo subito che mancano diversi attributi ricorrenti nella trattazione dell’episodio, come per esempio la spada utilizzata per decapitare Oloferne, e la figura della serva che assiste Giuditta nell’operazione.
Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1600-1602, Gallerie nazionali d’arte antica, Palazzo Barberini, Roma. Michelangelo, Giuditta e Oloferne nel pennacchio della volta della Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano (Roma), 1508 circa.
Nonostante ciò, l’immagine in sé non sembra perdere in termini di drammaticità, anzi. Klimt per sopperire alla mancanza dei tradizionali attributi rivolge tutta la sua attenzione alla donna, dipingendola austera, vittoriosa e straripante di sensualità: è la rappresentazione dell’archetipo della femme fatale (letteralmente ‘donna fatale’) caratterizzata da una seducente bellezza unita a uno spietato cinismo.
Osserviamo con più attenzione in cosa consiste tale archetipo femminile. Manieristica nell’allungarsi del formato verticale e nel decorativismo esasperato, la donna è qui girata di tre quarti e avanza verso sinistra, l’espressione tesa, le bellissime mani febbrili aggrappate alla gonna mentre trattengono per la chioma la testa decapitata di Oloferne, che pare sprofondare tra i tessuti variopinti come in un pozzo. Nella torsione delle mani essa rivela l’isteria che la consuma, e incede sottraendosi a ogni rapporto diretto con l’osservatore, catturata nelle trame del proprio arazzo.
Da uno sfondo non più dorato, meno appariscente di quello dipinto nella prima Giuditta emergono prepotentemente mani rapaci, tese in modo innaturale, tra le cui dita sono come impigliati i capelli di Oloferne. Proprio queste mani, così spigolose, insieme ai tratti affilati del volto e ai colori freddi della veste, tradiscono il contatto di Klimt con le nuove esperienze della Secessione viennese, un movimento espressionista nato agli inizi del XX secolo.

A più riprese il dipinto verrà confuso con la rappresentazione del personaggio di Salomè, anche quando la stessa cornice recitava Jvdith Holofernes. Forse la causa è da ricercare nel successo che la figura di Salomè, assassina di Giovanni Battista, aveva acquisito verso la fine dell’Ottocento. Salomè appariva infatti come prototipo della forza perversa della femminilità. Allora perché Klimt sceglie il nome di Giuditta per la sua bella assassina, anziché quello dominante di Salomè? L’artista vuole con ogni evidenza celebrare la donna compiuta, e non l’adolescente davanti a cui il potere del re abdica e si concede: Giuditta infatti è essa stessa il potere, colei che compie con le sue mani quel delitto che la danzatrice agisce per procura, e forse con cosciente cinismo, solo per conto della madre. Senza equivoci, Giuditta è regina del proprio destino.

Una prima laurea in Scienze dei Beni culturali e una specializzazione in Storia e critica dell’arte. Convinta aspirante insegnante, milanese di nascita, amante di tutto ciò che è artistico!
La rubrica “Finestre sull’arte” nasce per raccontare e condividere con voi ciò che conosco su opere, artisti e correnti artistiche, raccontandole in brevi articoli di pochi minuti, come se fossero delle vere e proprie pillole da assumere una volta al giorno. Perciò, se siete interessati ad approfondire la vostra conoscenza su questi temi, date un’occhiata ai miei articoli sul blog!
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