Natura & Avventura – Escursione sul monte Oronaye

Nei “panni” degli alpini

L’avreste mai detto che la valle incantata del dinosauro Piedino si trova in Piemonte? Ecco, ora lo sapete… ma in Piemonte dove?

In Val Maira, più precisamente nel vallone Enchiausa, un’incantevole vallata attorniata da torrioni che toccano i tremila metri, il più alto dei quali, il monte Oronaye, posto al confine tra Italia e Francia, domina la valle con i suoi 3100 metri di altezza. Un monte che grazie alla sua altezza, è stato utilizzato come punto di vedetta da parte degli alpini, ai piedi del quale hanno anche costruito un bunker.

L’escursione di oggi è fatta di prati, roccia, e.…ebbene sì, acciaio!!!

Torniamo a percorrere una via ferrata ed esattamente come le altre di cui vi ho già raccontato, questa possiede qualità uniche che la rendono meritevole di essere percorsa più volte.

Oggi non iniziamo subito a maneggiare l’acciaio; quella di oggi più che una via ferrata sarà una salita alpinistica in piena regola; ora vedremo il perché. Zaino in spalla, si parte!

Parcheggiamo la macchina lungo la strada che oltrepassa la frazione di Vivière, frazione di Acceglio. Ci troveremo innanzi a una serie di cartelli che indicano le tratte escursionistiche che prendono piede da questo punto. Seguiamo le indicazioni che portano la dicitura “via ferrata”, possibilmente senza farci spaventare dal fatto che i tempi di percorrenza indicati superano le due ore e mezza.

L’escursione di oggi, infatti, è molto impegnativa dal punto di vista della resistenza; oltre al tratto di via ferrata, dovremo percorrere anche una lunga (molto lunga) parte di camminata e non essendo un sentiero ad anello, ogni tratto che percorreremo, sarà da fare due volte, una all’andata ed una al ritorno, dovendo così raddoppiare ogni tempo di percorrenza studiato prima di partire.

Per non sfiancarci è importante studiare nel dettaglio cosa portarci dietro, per cui è fondamentale partire in una giornata di bel tempo per non dover trasportare i vestiti di ricambio che andrebbero a pesare eccessivamente sulle nostre povere spalle; fondamentali sono: qualche razione di cibo che ci possa tenere in piedi per tutto il giorno ma che non sia eccessivamente ingombrante, e una scorta d’acqua da razionare oculatamente e senza ingordigia e quindi, da non trangugiare avidamente ai primi sentori di secchezza alle fauci.

Inizia l’avventura!

Il sentiero si inoltra in un piacevole bosco di conifere; l’atmosfera è tranquilla, il vento tra le foglie ci porta all’orecchio una musica rilassante, il sole del mattino inizia ad illuminare la valle di una calda luce e gli alberi proiettano lunghe ombre sull’erba. Vediamo i picchi dei monti spuntare sopra le chiome e l’adrenalina, fidata compagna di avventure rocciose, inizia pian piano a farsi sentire.

Il bosco ad un tratto termina e ciò che ci appare davanti ci lascia letteralmente senza fiato.

I picchi che fino a pochi minuti prima vedevamo svettare sopra le chiome ora si mostrano come piccoli cappelli appuntiti di giganteschi corpi che incoronano un manto erboso ondulato e costellato da alberi. Davanti a noi, all’altro capo della valle, un torrione fa capolino tra i picchi che lo precedono; quella è la nostra destinazione; il monte Oronaye.

Il sentiero si fa strada nel fondovalle di questa antica valle glaciale, su antichi detriti frammentati dai ghiacci, ora diventati substrato di vita e mentre camminiamo, il rumore dei nostri passi e i fischi delle marmotte (Marmota marmota) fanno da contrasto al grande silenzio della montagna.

Il grande silenzio della montagna; quello che le fotografie e i video non riescono a trasmetterci; il vero suono della montagna è il silenzio.

In piedi nella vallata ci guardiamo attorno e le pareti che circondano il vallone, distanti centinaia di metri da noi, ci sembrano tanto vicine da poterle toccare allungando un braccio. Camminiamo lungo il sentiero, attraversiamo un prato, una zona alberata, rocce, ci affianchiamo a qualche piccolo torrione e nel mentre, non riusciamo ad abbassare lo sguardo nemmeno per guardare se gli scarponi sono allacciati. La maestosità poeticamente magnetica dell’immensità della montagna ci separa dal senso quotidiano della nostra dimensione per mostrarci la vera dimensione dell’uomo nella natura.

Noi siamo nati da queste rocce e queste rocce sono la nostra casa. Un invisibile cordone ombelicale ci lega a tutto ciò per l’eternità ma la nostra consapevolezza di ciò, è fragile.

Siamo al di sopra del limite degli alberi; davanti a noi solo rocce e fili d’erba. A questo punto del vallone, tra prati, picchi, pietraie e massi, troviamo una piccola fonte dalla quale possiamo dissetarci e rifornire la nostra scorta personale. Poco più in là, su una piccola collinetta, spunta una casetta di legno.

Una casetta come quelle di Heidi; si tratta del bivacco Valmaggia: un confortevole punto di riposo dove possiamo fermarci a riposare per recuperare un po’ di energie.

Il bivacco in questione è un’accogliente casetta dotata di tutti i comfort che un escursionista può desiderare in situazioni simili; è provvisto addirittura di una scarpiera con delle pantofole da indossare una volta entrati. Che non te li vuoi togliere gli scarponi dopo ore di cammino?

Sono presenti alcuni letti a castello con materassi, coperte e cuscini tra i quali possiamo schiacciare un pisolino o pernottare nel caso decidessimo di spalmare la nostra escursione su più giorni, usando il bivacco come punto di appoggio. Per non farci mancare niente, il bivacco è anche attrezzato con alcune riserve di cibo e di acqua (da usare in caso di necessità) e una piccola ma funzionale scorta di piatti, pentole e piastre a gas di cui possiamo usufruire per cucinarci un pasto.

I bivacchi sono strutture ad uso comune, per cui quando ci si trova all’interno di uno di questi è buona norma comportarsi rispettosamente verso le altre persone con cui potremmo trovarci a condividere gli spazi, ma anche verso le strutture e gli oggetti che potrebbero essere di utilità per chi viene dopo di noi. Imperativo è non danneggiare niente e non esaurire le scorte preesistenti nel bivacco (salvo necessità) ma fare uso principalmente di quello che ci portiamo dietro.

Dopo esserci riposati proseguiamo alla volta dell’Oronaye, sempre più vicino a noi. A separarci da questo immenso picco dalle sembianze quasi dolomitiche c’è una lunga pietraia che si insinua nella parte terminale del vallone Enchiausa.

Giungiamo a questa pietraia tramite il solito sentiero che ora si fa strada tra le ultime macchie erbose all’ombra dei torrioni più vicini al bivacco e dopodiché, uno scenario marziano.

Iniziamo a camminare sulla pietraia; la strada che da lontano sembrava breve, ora sembra lunghissima. Il bivacco Enrico Mario appena sotto l’Oronaye si avvicina sempre di più ma un po’ troppo lentamente; mi verrebbe quasi da dire che il tempo rallenta avvicinandosi all’Oronaye, non avvicinandosi alla velocità della luce.

Ad un tratto la pietraia finisce e ci troviamo increduli di fronte ad un forziere di mattoni che è il bivacco Enrico Mario, un antico bunker costruito dagli alpini ed ora ristrutturato per renderlo fruibile agli escursionisti. Quest’ultimo, a differenza del primo, non assomiglia ad una baita ma è molto, ma molto più spartano, sia negli esterni che negli interni. Diciamo che dormire al suo interno potrebbe essere una buona rievocazione storica degli anni del primo novecento, immedesimandoci negli alpini che presidiavano questa costruzione.

Ora ci possiamo riposare un po’ ma non abituiamoci troppo bene perché dobbiamo ancora percorrere il vero e proprio avvicinamento alla via ferrata; quindi, ci scialliamo qualche minuto, ci infiliamo tutta l’attrezzatura e ci muoviamo finché siamo ancora caldi.

Superiamo un piccolo dislivello sulla sinistra del bunker ed ecco che ci troviamo su un’immensa pietraia ai piedi del boss finale.

Dopo un avvicinamento infinito che ci porta a percorrere quasi tutta la pietraia fino ad arrivare dall’altro lato della base del monte, troviamo il tanto sospirato attacco della via, in un punto che si presta molto bene alla scalata.

Qui comincia la salita alla vetta; una via ferrata di discreta facilità attrezzata con due cavi: uno a cui tenersi con le mani ed un altro a cui agganciarsi con i moschettoni. La scalata inizia procedendo su di una serie di rocce in salita che formano una specie di scala e prosegue con un alternarsi di salite e traversi a zig zag. Finalmente, dopo tre ore di cammino siamo sulla roccia e miriamo al punto più alto del vallone dopo averlo ammirato per ore da lontano.

Finita la prima serie di salite ci troviamo davanti ad una casetta; un piccolo bivacco costruito a metà della parete dagli alpini che per primi hanno attrezzato la via negli anni ’20.

la salita prosegue tra tratti in salita e in orizzontale fino a trovare una porta nella roccia. Una porta nella roccia? Si, una porta nella roccia.

Si tratta dell’ennesimo ed ultimo bivacco che incontreremo prima della vetta. La particolarità di quest’ultimo è quella di essere completamente scavato nella roccia ed essere letteralmente tappato da una porta i cui cardini sono fissati dentro la montagna. La posizione di questo bivacco d’emergenza è particolarmente suggestiva; ci troviamo su un terrazzino largo poco più di un metro sopra un dirupo di decine di metri e sopra di noi un bastione totalmente verticale alto trenta metri. In cima ad esso, la nostra destinazione. Adrenalina a fiumi.

Pochi metri oltre la porta del bivacco parte una scala che ci porta al culmine del tragitto di oggi. Ancora un ultimo sforzo ed eccoci finalmente in cima. Siamo più in alto di qualsiasi cosa nel raggio di chilometri. Il vallone Enchiausa che ci ha impegnato per più di tre ore, da quassù sembra un giardinetto. Ora guardiamo dall’alto ciò che abbiamo guardato dal basso quando eravamo appena usciti dal bosco. A farci compagnia, l’immenso silenzio.

Guardiamo le cime intorno a noi, quelle che fino ad ora avevamo visto solo dal basso. Tutto da qui sembra più piccolo. In lontananza si scorge addirittura sua maestà il Monviso che svetta tra le Alpi del basso Piemonte.

Osserviamo tutto ciò e cerchiamo di far propria la consapevolezza della nostra dimensione e del nostro ruolo in natura; consapevolezza fragile ma specchio delle più giuste leggi universali. La nostra pace sta in questa consapevolezza.

Davanti a ciò cerchiamo il nostro darshan ma non dimentichiamoci una cosa: come dice il grande alpinista Simone Moro, “quando arrivi in cima alla montagna, non sei alla fine; sei solo a metà strada”! Namastè!


Ciao a tutti, mi chiamo Matteo, e la natura è sempre stata una parte fondamentale della mia vita. Questa passione mi ha accompagnato durante la mia crescita, finché non è sfociata in determinazione nel volerla trasformare in una professione. Ho frequentato così un percorso universitario a tema ambientale naturalistico che mi ha dato modo di ampliare ed approfondire nel modo migliore le mie conoscenze in materia e, successivamente, spinto dal voler trasmettere le sensazioni che la natura può regalare, sono diventato guida escursionistica. Inoltre, faccio parte dell’associazione Docet Natura e collaboro con ASD La Ventura. Provo un’immensa soddisfazione nel vedere i sorrisi e gli sguardi pieni di meraviglia nelle persone che scoprono la maestosità di piccoli fenomeni naturali, a loro poco prima sconosciuti!
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