La tradizione colta nella scultura cristiana

Nel Museo del Tesoro della basilica di San Pietro in Vaticano si conserva un magnifico sarcofago cristiano appartenuto a un patrizio romano di nome Giunio Basso, prefetto della città di Roma, morto a quarantadue anni nel 359 d.C.
È un sarcofago di concezione tradizionale, decorato su tre lati da rilievi che rappresentano scene tratte dell’Antico e dal Nuovo Testamento: esse sono ripartite su due registri e inquadrate, secondo uno schema di origine orientale abbastanza consueto all’epoca, entro elaboratissime cornice architettoniche che dividono la fronte in tanti piccoli scenari, quasi dei “tabernacoli” nei quali prendono posto le figure, normalmente in numero di tre. Così isolate, “iconizzate” in tanti universi a sé stanti, le scene non vengono intese in sequenza narrativa, ma percepite come eventi diversi e ben distinti dall’immensa epopea del cristianesimo.
L’attenzione dello spettatore è attratta dunque in primo luogo dalla singola immagine, che egli è portato a considerare in sé e nel suo significato proprio, dunque per il valore di evento simbolico in chiave salvifica che l’esegesi scritturale le attribuisce. Solo successivamente, a un livello più complesso di lettura che abbraccia la totalità del monumento, lo spettatore apre lo sguardo all’intera decorazione figurata: può allora cogliere le relazioni che legano fra loro le diverse scene e comprendere forse nella sua interezza il difficile, articolato messaggio che il defunto, dotto patrizio di antichissima famiglia, ha voluto lasciare ai suoi compagni di fede.
Il rilievo sul lato lungo del sarcofago è dominato dalle scene centrali dei due registri: pur senza artifici vistosi, esse si impongono allo spettatore con prepotente evidenza, costituendo una sorta di “fuoco” all’interno della sequenza. In entrambe le scene è rappresentato Cristo, una novità importante rispetto alla tradizione, che nella prima metà del secolo aveva preferito porre in questa posizione la meno impegnativa immagine del defunto o addirittura semplice, generiche figure di oranti, cioè di fedeli in atto di pregare.
Nel registro superiore Cristo ha l’aspetto di un giovane Apollo ed è seduto in trono fra i santi Pietro e Paolo ai quali consegna il rotolo della legge. Con una soluzione mai attestata in precedenza egli poggia i piedi su un baldacchino sorretto dal dio romano Coelus, che secondo la consueta iconografia pagana ha le sembianze di un vecchio barbuto. La scena allude forse al Regno dei Cieli che attende l’anima del defunto riscattata dalla forza salvifica della fede, ma è prima di tutto un simbolo d’autorità e di potere: rappresenta Cristo Kosmokràtor (Signore dell’Universo), la cui immagine doveva piacere al ricco patrizio abituato a esercitare la suprema autorità urbana; certo non per caso né senza un preciso intendo ideologico questa iconografia è ricavata da un’efficacissima formula dell’arte imperiale romana, il cui successo è dimostrato dal fatto che un secolo più tardi sarebbe penetrata anche nell’arte indiana per la raffigurazione del Buddha assiso in trono fra due assistenti detti Bodhisattva.
Nel registro inferiore Cristo è in groppa all’asinello durante l’Ingresso in Gerusalemme, mentre due uomini di proporzioni nettamente inferiori lo osservano arrampicati su un albero: anche in questo caso un’immagine trionfale, il momento più felice dell’itinerario terreno di Cristo. Troviamo dunque associati, in un rapporto verticale immediatamente percepibile, due momenti della sua gloria: il trionfo terreno in baso, nel quale la folla festante di Galilea sembra farsi metafora delle plebi plaudenti durante le epifanie dell’imperatore e dei suoi funzionari; il trionfo celeste in altro, in cui Cristo appare nella pienezza della sua potenza e attende in cielo, circondato dai santi, coloro che avranno vissuto nella fede.
Attorno alle immagini del nuovo sovrano dell’universo si dispongono tutte le altre scene, secondo un programma di grande intensità concettuale, ma non facilmente decifrabile: nell’arte cristiana ciascuna immagine può infatti assumere uno o più sensi traslati o allusivi, che in molti casi restano occulti all’immediata comprensione dello spettatore; vi sono però, nella disposizione degli oggetti, simmetrie e richiami che non lasciano dubbi sull’esistenza di un messaggio complesso.
Agli estremi del registro superiore troviamo il Sacrificio di Isacco e Il giudizio di Pilato; nei riquadri intermedi la Cattura di san Pietro e Cristo condotto davanti a Pilato: il martirio dell’apostolo e il sacrifico del Figlio di Dio sembrano messi in parallelo e alludono forse alle persecuzioni subite dalla Chiesa, mentre il buon esito della prova di Abramo potrebbe simboleggiare l’intervento di Dio per la salvezza dei suoi figli, come già per la salvezza di Isacco. Nel registro inferiore al Tormento di Giobbe e a San Paolo condotto al supplizio, alle due estremità, rispondono Adamo ed Eva tentati dal serpente e Daniele nella fossa dei leoni nelle scene interne: la contemporanea presenza di Giobbe, Daniele e Paolo suggerisce il tema della redenzione del peccato mediante la sofferenza, quasi a evocare gli episodi cruenti della Passione di Cristo, che nel IV secolo, per una sorta di pudico rispetto della sua natura divina, non vengono mai rappresentati apertamente.
Il sarcofago rappresenta una degli esempi più significativi di stile colto nell’arte cristiana. Affiora dai minuti particolari la volontà dello scultore – che potrebbe essere un greco chiamato appositamente dall’Oriente – di ricollegarsi alla tradizione del passato, in particolare allo stile naturalistico che aveva contraddistinto per quatto secoli le commissioni ufficiali dello stato e dell’aristocrazia senatoria. Le figure riprendono schemi largamente usati in precedenza e la struttura a colonne, tornata di moda poco tempo prima, si ispira ai sarcofagi pagani del II-III secolo d.C., un’epoca che alla metà del IV secolo appariva già una lontana e felice età dell’oro.
La delicata esecuzione dei particolari, il modellato dei corpi attentissimo agli effetti di superficie, l’ariosa disposizione delle figure nei tabernacoli, il realismo delle vesti e delle teste segnano una profonda differenza rispetto alla media delle opere prodotte nelle botteghe romane contemporanee.
Il confronto fra la testa di Pilato, nella scena d’angolo superiore, e quella molto più goffa dello stesso personaggio in un sarcofago appena più antico è eloquente. Lo spirito di emulazione con cui lo scultore ha operato lo spinge a cercare una fluidità di forme e una dignità nell’impaginazione delle scene che a parità di epoca si trova solo nelle migliori sculture dei centri dell’Oriente greco, dove nella relativa sicurezza militare e politica dello stato, ancora in grado di tenere lontano le popolazioni barbariche dai confini, la tradizione classica era sopravvissuta in forme molto più limpide e pure che in Occidente.



Una prima laurea in Scienze dei Beni culturali e una specializzazione in Storia e critica dell’arte. Convinta aspirante insegnante, milanese di nascita, amante di tutto ciò che è artistico!
La rubrica “Finestre sull’arte” nasce per raccontare e condividere con voi ciò che conosco su opere, artisti e correnti artistiche, raccontandole in brevi articoli di pochi minuti, come se fossero delle vere e proprie pillole da assumere una volta al giorno. Perciò, se siete interessati ad approfondire la vostra conoscenza su questi temi, date un’occhiata ai miei articoli sul blog!
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