La cucina sa di nonna. Di pietanze prelibate preparate tra i fornelli e il forno. Con il frigo sempre aperto perché gli ingredienti non sono mai abbastanza. Con il vociare di chi aspetta il pranzo che arriva dall’altra stanza...
Mentre cuciniamo e prepariamo piatti succulenti, è facile che ci torni alla mente qualche ricetta tramandata – di generazione in generazione – nella nostra famiglia.
Sì, sono spesso piatti a cui siamo legati con gusto e con sentimento e che fanno affiorare ricordi che datano alla nostra infanzia.


In realtà non sono solo le ricette ad essere state tramandate, ma anche il modo di parlare: il nome degli attrezzi della cucina, i gesti che la nonna o la mamma compivano per portarci a tavola quelle pietanze che ci piacevano tanto. Parole che sono sempre ferme nella nostra testa e che ci sono state insegnate attraverso la lingua dialettale.
Ecco quindi quali possono essere quei termini che ci portiamo ancora nel cuore e che continuamente – nei nostri territori di Milano, Monza e Brianza – non si smette mai di ripetere.
La nonna e la mamma indossavano sempre il scossaa, il grembiule. Nelle mani un fregón, uno strofinaccio, in caso di necessità. Accompagnava il fornello il sofranèll, il fiammifero o zolfanello, che serviva per accendere il fuoco.
Spesso la giusta quantità di riso o di sale era la bràncada, una manciata. Non ci si poteva sbagliare, l’abitudine riconosceva le mani come una perfetta bilancia.
E allora una bella bràncada de saa, oppure per arricchire i piatti si aspettava el butter deslenguaa, il burro liquefatto.
I nostri piatti erano accompagnati dalle verdure dell’orto.
Un cestino bello pieno di foglie verdi di erborin, prezzemolo, o un bel ceppo di còst, foglie di bietola, con grossa costola bianca centrale.
Ma prima di metterle in pentola bisognava assolutamente pulirli. Era tipico mondà la verdura, togliere le foglie appassite, e lavarla prima di cuocerla.
E alla sera com’era buono il pancòtt, la minestra di pane bollito in acqua o brodo, condito con burro e formaggio. Così buono da andare giù con il pidrioeù, l’imbuto!
Un bel baslòtt, grossa ciotola, per sentirsi belli pieni, riscaldati e sazi.
Se qualcosa avanzava si faceva la schiscètta. Meglio non buttar via niente. Il recipiente metallico con manico pieghevole e coperchio a tenuta era pronto per essere portato al lavoro.
Non mancava però la merenda o la fine di un bel pranzo con la frutta estiva di stagione:
sul tavolo una cavàgna, un cesto, colmo di dolci albicocche: la mognaga bella arancione, profumata e vellutata.
La magiostra rossa, la fragola, era sempre segnale di nuova primavera e nel maggio inoltrato bisognava stare molto attenti a non ingerire il gandioeù, il nocciolino, delle ciliegie.
In caso di festa si faceva saltà via el busción, si stappava una bottiglia. I ciàccer, i dolci delle chiacchiere, erano d’obbligo a Carnevale. Se qualcuno si sposava allora bisognava mangiare i benìs, i confetti. Però quando qualcuno diceva che andava a mangiare i bènis, andava per davvero a sposa.
E infine un buon caffè, ma io me lo ricordo come la mia nonna non fosse mai contenta!



E ogni volta aveva da dire che l’era amar cóme el tòssegh, amaro come il veleno, amarissimo!
E voi quali ricordi avete della cucina della nonna o della mamma?
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Sono Laura Valleri, guida turistica abilitata in Milano, Monza e Brianza. Vivo in Brianza e sono convinta che questo sia un territorio dotato di tante sfaccettature, che merita di essere maggiormente valorizzato, conosciuto, fruibile. Lo scopo del mio lavoro è questo: far sì che le persone possano sapere di più del luogo in cui abito, affinché la sua storia e il bello che l’ha caratterizzato possa continuare ad essere tramandato. Svolgo servizi di visite guidate da diversi anni e sarei lieta di accompagnare anche voi in luoghi unici e poco conosciuti.