Liguria da scoprire – Pietrabruna e il Monte Follia (IM)

È la Liguria terra leggiadra.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fondi valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.

La Liguria è la terra degli ossimori, dei contrari che si abbracciano e si uniscono armonicamente nel comporre un paesaggio senza eguali. Una terra arida, schiacciata dal sole ardente e sferzata dai soffi del vento, che nel corso delle stagioni si anima dei colori e dei profumi degli olivi, delle mimose e di altre effimere fioriture, a contrasto dei giochi di ombre sulle nude rocce affioranti. Sui vari crinali si compongono costellazioni di piccole borgate, tra le cui case si ergono torri e campanili: amanti indefessi del mare, ne scrutano l’orizzonte e ne colgono i sussurri portati dal libeccio.

Vallone di San Lorenzo e Pietrabruna

L’antico borgo di Pietrabruna

Una delle stelle più lucenti è senz’altro il borgo di Pietrabruna, un agglomerato di case strette le une sulle altre, posto su un crinale ai cui piedi scorre un ramo sorgentizio del rio San Lorenzo, nell’immediato entroterra imperiese. Il borgo devo forse il proprio nome al colore dell’arenaria, abbondante nel vallone di San Lorenzo e a lungo utilizzata quale principale materiale da costruzione. Presente in natura con un colore giallo-ocra, l’arenaria risulta ricca di ossidi ferrosi che, se sottoposti ad alte temperature, conferiscono alla roccia delle caratteristiche sfumature bruno-dorate.

Parimenti a molti altri piccoli borghi dell’entroterra ligure, anche la storia di Pietrabruna rimane perlopiù avvolta nel mistero fino al X secolo. L’alba del nuovo millennio segna effettivamente l’avvento di un periodo di rinascita e fioritura economico-culturale. Le prime testimonianze certe sull’esistenza del borgo risalgono al 1103 e si devono all’arrivo di una comunità di Benedettini dell’isola di Saint-Honorat de Lérins, a cui vennero affidate costruzione e gestione della chiesa romanica di San Gregorio Magno.

Facciata in arenaria dell’antica chiesa romanica di San Gregorio Magno

L’insediamento iniziò a crescere, nonostante un periodo di incertezza politica che vide protagoniste alcune famiglie e signorie locali, intente a contendersi il dominio patrimoniale della zona. Di certo, al termine del XII secolo, il baluardo di Pietrabruna gravitava ormai saldamente nell’orbita del comune di Porto Maurizio, risultando di conseguenza sempre più legata al potere di Genova.

Il passaggio sotto l’egida genovese non fu per nulla pacifico: le rivolte contadine duecentesche vennero puntualmente represse nel sangue dalle milizie genovesi e i sopravvissuti puniti mediante severe sanzioni penali e pecuniarie. L’uso indiscriminato della forza non soffocò l’ascesa delle periferie, bensì alimentò ulteriormente il desiderio di autonomia.

In questo contesto trascorsero i secoli basso medioevali, durante i quali il borgo di Pietrabruna risalì progressivamente il crinale acquisendo la tipica fisionomia di un centro arroccato e cinto da una cortina compatta di case a schiera che, all’occorrenza, potevano assolvere alla funzione di mura difensive. Di questo primo sviluppo urbano rimangono oggi alcune varchi d’accesso interni, in particolare un archivolto monumentale in pietra arenaria sopra il quale imposta una tipica casa-torre.

Uno dei tanti archivolti di Pietrabruna

Alle spalle del borgo si estendevano le bandite: prati-pascolo comuni il cui sfruttamento agro-silvo-pastorale divenne ben presto la più ambita risorsa economica delle comunaglie rurali e, come tale, fonte inesauribile di discordie e conflitti con le popolazioni soggette ad altre entità politiche, in particolare provenienti dalla confinante Valle Argentina.

Battaglie combattute a colpi di bidente, duri, violenti, per rompere il terreno compatto e avaro; non per scavare trincee e colpire nemici ma per ricavare superfici coltivabili dove i versanti si gettano a strapiombo verso valle. Sorsero così centinaia di muretti a secco (maxéi), i templi laici della cultura contadina. Opere ciclopiche, erette pietra su pietra dalla fatica immane di padri pronti a sacrificarsi per la prosperità dei propri figli. Prati, campi, pascoli, tutto venne lentamente trasformato in uliveti. Chiome argentate iniziarono a scintillare al vento, simbolo di una ricchezza che però non fu mai interamente di coloro che la generarono.

Terrazzamenti coltivati a olivi

Sicuramente i proventi derivanti dallo sfruttamento della zona consentirono il compimento dell’espansione urbana iniziata secoli addietro e sancirono l’ascesa politica di Pietrabruna, testimoniata dall’eccellente produzione artistica e architettonica del Cinquecento.

A questo periodo risalgono l’ampliamento a tre navate dell’oratorio di San Matteo, elevato a nuova parrocchiale a svantaggio dell’ormai scomoda chiesa di San Gregorio, e la costruzione dell’oratorio della Santissima Annunziata, inizialmente sede di una “Casaccia”, ovvero di una confraternita di Disciplinanti, di cui resta la pala dipinta dal genovese Agostino da Casanova (civis Janue) nel 1545. A certificare la supremazia territoriale di Pietrabruna, vennero anche edificati e ampliati degli oratori campestri lungo le principali mulattiere dirette ai pascoli montani (San Rocco e San Salvatore) e i borghi limitrofi (Madonna della Rocca).

Oratorio campestre di San Salvatore

Infine, di questa fortunata congiuntura politico-economica restano ben visibili, disseminati fra i tortuosi carruggi del borgo, numerosi architravi in ardesia scolpiti e iscritti da lapicidi liguri itineranti di formazione cenoasca, oltre ad alcuni edifici storici in cui erano dislocati taverne, forni e frantoi “a sangue”, che ricordano l’importanza assunta dalla produzione olearia in quel torno di tempo.

Architrave in ardesia

La gente di Pietrabruna si concentrò così tanto nel consolidare la propria supremazia a livello locale da non rendersi tempestivamente conto dell’incombente minaccia in arrivo dal mare. Fu così che intorno alla metà del XVI secolo ebbero inizio le funeste incursioni turco-barbaresche che flagellarono la Valle di San Lorenzo per oltre un secolo, seminando roghi e terrore nei centri più ricchi e popolosi. I merletti della fioritura artistica di inizio secolo vennero presto accantonati per far spazio ai lavori di edificazione e fortificazione delle “case-torri”. Le razzie subite hanno lasciato tracce indelebili e ancora oggi visibili lungo i principali snodi viari del borgo, ma al contempo fornirono al popolo prebunenco l’ennesima occasione di dimostrare la propria resilienza e rivendicare con ancor più determinazione la tanto agognata indipendenza. L’autonomia comunale, formalmente riconosciuta nel 1613 per mandato della Repubblica di Genova, fu pertanto il naturale risultato di una lotta secolare e rappresentò l’inizio di un nuovo risorgimento per il borgo di Pietrabruna.

Infatti, al buio delle scorrerie barbaresche seguì una luminosa fase di rilancio, ancora una volta incentrata sulla produzione di olio d’oliva che, attraverso i mercati portorini, giunse prima in Provenza e successivamente si spinse fino all’Olanda e all’Inghilterra.

Fortunatamente sulle cicatrici delle guerre si posano le carezze dei tempi di pace, tocchi che curano e nutrono l’anima bella del territorio. A cavallo tra il XVIII e XIX secolo furono aggiornate le forme architettoniche dei più importanti edifici religiosi, perlopiù secondo il nuovo stile barocco imperante nell’Estremo Ponente Ligure, ad eccezione della parrocchiale dei Santi Matteo e Gregorio Magno che, nel 1844, venne interamente ristrutturata secondo un gusto neoclassico ispirato alle tendenze francesi del periodo. La peculiarità di una comunità votata a due Santi Patroni non risulta più tale se inserita nel contesto della Valle di San Lorenzo, curiosamente divisa tra due Diocesi dal 1831: Pietrabruna legata al vescovo di Albenga, mentre Boscomare e Torre Paponi, un tempo comuni autonomi e oggi frazioni di Pietrabruna, appartenenti alla Diocesi di Ventimiglia.

Il campanile della parrocchiale emerge tra le strette case di Pietrabruna

Nel frattempo, caduta la Repubblica Ligure (1805) e superata la breve parentesi dell’annessione all’Impero Napoleonico (1805 – 1814), il borgo di Pietrabruna era divenuto parte integrante del Regno di Sardegna. La nascita della Provincia di Porto Maurizio, sancita il 14 luglio 1860 con un Decreto Reale di Vittorio Emanuele II, innescò una vera e propria rivoluzione per la popolazione prebunenca. La Repubblica di Genova aveva sempre ostacolato i commerci e i contatti con il Piemonte, impedendo ogni tentativo di costruzione di strade verso l’entroterra e investendo unicamente negli spostamenti via mare. Furono sufficienti pochi decenni sotto il simbolo di Casa Savoia per rompere questa secolare visione del territorio, migliorando le mulattiere intervallive e soprattutto creando una nuova rete stradale longitudinale in grado di connettere la costa con l’oltregiogo e le regioni transalpine.

L’emigrazione verso la Francia di molti italiani, spesso disposti ad accettare trattamenti economici e umani avvilenti, provocò un crescente malcontento tra la popolazione d’oltralpe, culminato in alcune sanguinose rivolte e in vere e proprie cacce all’uomo. Nonostante il triste ricordo delle numerose vittime, il fenomeno dell’emigrazione non solo non calò negli ultimi anni dell’Ottocento ma addirittura si intensificò nelle prime decadi del Novecento.

A favorire l’arresto di questa emorragia del popolo prebunolo furono l’avvento della meccanizzazione nella raccolta delle olive e il nascere a Pietrabruna delle piantagioni di lavanda, che impegnavano tutta la stagione estiva garantendo una remunerazione soddisfacente.

La storia della coltura della lavanda di Pietrabruna affonda le radici negli anni venti del secolo scorso, quando si imparò ad estrarre un profumatissimo olio essenziale dalle sommità floreali della lavanda spontanea, a quei tempi particolarmente diffusa sulle pendici mediterranee delle Alpi Liguri. Un lavoro lungo, faticoso e purtroppo decisamente poco redditizio.

Non fecero in tempo a comparire i primi appezzamenti che scoppiò la guerra. I contadini furono costretti a gettare i falcetti per imbracciare le armi, combattendo valorosamente l’occupazione nazifascista nei vari distaccamenti partigiani dell’entroterra imperiese.

Nel dopoguerra, l’attività riprese interessando un numero sempre maggiore di famiglie, fino a diventare, alla fine degli anni sessanta, la fonte primaria di reddito, in grado di arginare per qualche decennio l’esodo dalle campagne. Allo schiocco del passo dei muli si sostituirono prima le teleferiche, quindi i curiosi “gimpers”, piccoli ma rumorosissimi camioncini che facevano la spola verso le zone di raccolta, e infine il silenzio dell’abbandono.

Lavandeto sulle alture dell’imperiese

Oggi il nome di Pietrabruna continua però a rievocare tradizioni agricole, religiose e folcloriche che creano e accrescono il fascino di questo villaggio di pietra. I campi alle spalle della borgata non si tingono più di blu-violetto, ma il profumo della lavanda continua a pervadere gli stretti carruggi e i suoi fiori fanno ancora capolino nei giardini e ai margini delle antiche mulattiere. Un chiaro elemento identitario che ogni anno, ai primi di agosto, viene ancora celebrato in una grande fiera paesana: essenze floreali e prodotti tipici del territorio adornano le vie della borgata; in piazza risuonano le musiche di festa della gloriosa Banda “Santa Cecilia”, che vanta oltre un secolo e mezzo di storia; i carruggi si animano di voci e persone, ridando vita e lustro al gioco “U Balun”, la pratica sportiva più radicata nella cultura e nella memoria dei prebunenchi.

La vocazione agricola del borgo vive ancora nella produzione scelta di anemoni e ranuncoli dai mille colori, diretti al mercato floricolo di Sanremo, e naturalmente nello straordinario olio extra vergine di oliva taggiasca. L’olio è l’ingrediente principe di tutte le ricette della gastronomia locale, compresa la produzione dolciaria. È il caso della “stroscia”, il dolce tipico di Pietrabruna: una semplice torta friabile impastata con abbondante olio extra vergine, farina, zucchero e vino liquoroso (oggi si predilige il vermouth ma in origine si usava un vermentino locale), che rievoca una cucina povera e trae il nome dal verbo dialettale “strosciare”, ovvero rompere con le mani, spezzare.

Le origine contadine di questo dolce risalgono probabilmente a più di cinquecento anni fa, forse addirittura ai tempi dei benedettini. La dose importante di olio favoriva una lunga e facile conservazione delle torte, poste all’interno di apposite ceste rivestite con un panno bianco e un foglio di carta velina. La “stroscia” veniva pertanto prodotta in grosse quantità in prossimità dei festeggiamenti patronali, assicurandone la disponibilità durante tutto l’anno. Ogni famiglia consegnava al forno del paese le proprie teglie (“fögli”), contenenti sei o sette “strosce”, firmate in modo distintivo mediante l’aggiunta di una nocciola, di un pinolo o di altri segni che ne consentissero il riconoscimento dopo la cottura.

Un dolce estremamente pratico e dal profumo intenso, oggi promosso e tutelato dall’attestazione De.C.O. (Denominazione Comunale di Origine), in quanto riconosciuto espressione storica del borgo di Pietrabruna.

Stroscia di Pietrabruna

Ü monte Füglia (Il monte Follia)

Pietrabruna (395 m) è anche il punto di partenza per alcune brevi escursioni di estremo interesse storico-paesaggistico. L’itinerario più suggestivo conduce in cima al Monte Follia (1031 m), anticima sud del vicino Monte Faudo (1151 m), ultimo gruppo oltre i mille metri del lungo crinale che delimita sul lato sinistro idrografico la Valle Argentina e sovrasta la riviera ligure tra Arma di Taggia e la frazione Porto Maurizio di Imperia.

Dalla piazze centrale si sale inizialmente lungo stradine e vecchie mulattiere tra uliveti, vecchi ruderi e antichi terrazzamenti dove un tempo si coltivava la lavanda e che oggi purtroppo risultano spesso abbandonati e parzialmente invasi dalla vegetazione. Tralasciando la carrareccia diretta al Monte Faudo, su cui sorgono alcuni poco romantici ripetitori, si prosegue lungo il sentiero che rimonta il versante tra la macchia mediterranea e i boschi di roverella, tra le cui chiome fanno capolino il Monte Follia e la cresta dentellata che lo collega al Monte Faudo. Il progressivo diradarsi della vegetazione arborea introduce a un paesaggio rurale che ispira suggestioni macchiaiole. Alla base del cono del Monte Follia, si estendono ameni pascoli di cavalli e ovi-caprini allo stato semibrado, punteggiati da bianchissime rocce calcareo-marnose che scintillano alla luce del sole.

Bel pascolo sommitale; sullo sfondo la cima del Monte Faudo

Superate le ultime bancate di roccia gradinata si guadagna la calotta sommitale, splendido balcone panoramico sul mare e sulla costa. All’orizzonte, nelle giornate limpide, non è raro scorgere la Corsica; sul lato opposto, invece, si innalzano le vette più alte delle Alpi Liguri.

La vetta del Monte Follia appare fin da subito decisamente caratteristica. Il curioso anello pianeggiante che circonda la calotta sommitale ha da sempre attirato l’attenzione degli studiosi e spinto i locali a creare miti e leggende sulle sue origini. Nel periodo compreso tra il 1987 e il 1994 furono condotte sette campagne di scavo dalla sezione imperiese dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri. Le ricerche si concentrarono nel settore nord-occidentale dell’anello e portarono alla luce un insieme di strutture e reperti che hanno permesso di ricostruire due fasi distinte di frequentazione del sito, databili, rispettivamente, alla seconda Età del Ferro (IV-III sec. a.C.) e alla prima età imperiale romana.

Nel corso delle attività sono emersi i resti di un antico “castellaro”, un sito d’altura protetto da una doppia cinta muraria costruita “a secco” con filari di pietre irregolarmente sbozzare e poste di piatto. Al primo periodo sono attribuiti una fibula in bronzo e frammenti di ceramica riferibili alla cosiddetta “Ceramica di Rossiglione”, databile per l’appunto al IV secolo a.C.

Filari di pietre dell’antica cinta muraria

Gli scavi condotti sembrano indicare un apparente abbandono del sito di circa tre secoli, mentre hanno restituito interessanti reperti che testimoniano una successiva occupazione in età romana, quando, riutilizzando almeno in parte le strutture preesistenti, vi venne impiantata un’officina per la lavorazione del ferro. Di quest’ultima, che costituisce sicuramente il ritrovamento più significativo del Monte Follia, sono stati recuperati parti della fornace subcilindrica in argilla concotta, abbondanti resti della lavorazione e del combustibile usato e numerosi strumenti in ferro utilizzati nelle attività agro-silvo-pastorali che si dovevano svolgere nell’area circostante. Il materiale rinvenuto, tra cui spiccano alcune anfore con fondo piano e piede ad anello di tradizione gallica, ha permesso di meglio specificare la cronologia di tale insediamento all’età augusto-tiberiana, epoca che coincide con la completa pacificazione e la totale conquista del territorio della Liguria occidentale, suggellata dalla costruzione della “via Julia Augusta” e dall’erezione del Trofeo della Turbie (detto “Summa Alpis” nell’itinerario Antoniniano), entrambi voluti dall’Imperatore Augusto per celebrare le sue vittorie sui popoli alpini.

Tuttavia il sito non è stato per nulla valorizzato, anzi passando oggi in cima al Monte Follia non si nota un granché. Al contrario, i reperti provenienti da questa culla della civiltà locale e da un altro insediamento che sorgeva sulla vicina altura del Monte Sette Fontane, sono ben conservati quali memoria tangibile in una sezione del Museo Archeologico ed Etnografico “Giuseppina Guasco” di Pietrabruna, dove la preistoria si fonde con la storia recente e la cultura contadina di questo meraviglioso quanto antico borgo montano.

Ingresso al Museo “Giuseppina Guasco”

La visita al museo e un giro tra gli stretti carruggi del paese, gustandosi nel mentre un pezzo di stroscia, sono la naturale conclusione dell’escursione al Monte Follia e del suggestivo viaggio nella storia del dolce e assolato Vallone di San Lorenzo.

Semplicemente Pietrabruna

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LUCA CAVIGLIA
Sono Luca Caviglia, Accompagnatore di Media Montagna iscritto al Collegio delle Guide Alpine della Liguria e membro del gruppo di Accompagnatori e Guide Alpine “Hike&Climb Liguria”. Nato a Genova nel 1991, mi sono prima laureato in “Scienze Naturali” presso l’Università degli Studi di Genova e successivamente ho conseguito il titolo Magistrale in “Evoluzione del comportamento animale e dell’uomo” presso l’Università degli Studi di Torino, con specializzazione in ricerca e gestione di carnivori e ungulati. Amo la montagna in tutti i suoi molteplici aspetti e ogni mia escursione vuole essere una tavolozza piena di colori, con cui dipingere insieme ai partecipanti le meraviglie del nostro territorio.

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