Dolci tentazioni
Passeggiare per le stradine affollate del centro storico di Napoli non significa solo soffermarsi a guardare i palazzi storici, il numero esorbitante di chiese che si possono visitare, i negozi artigianali ma più di tutto colpisce il numero sempre più crescente di posti dove si può assaggiare ogni sorta di bontà culinaria dal dolce al salato senza tralasciare le ormai innumerevoli versioni della pizza, da quella classica a quella fritta o sorseggiare un buon caffè.

Tutti conoscono e vogliono provare il babà o la più classica sfogliatella ma non sempre se ne conoscono la vera storia o le leggende che si celano dietro ad ogni dolce che oramai fa capolino in bella vista, trionfante nelle vetrine di caffetterie e pasticcerie, ce ne sono per tutti i gusti, dimensioni e varietà che sono state inventate nel corso del tempo, senza mai profanare la “sacralità” della ricetta originale.
Tutti noi siamo abituati a pensare ai conventi come luogo di preghiera e contemplazione e mai immaginare che le abili mani delle suore potessero realizzare piccole dolci “tentazioni”, ed invece proprio nel silenzio dei monasteri nasce parte della tradizione dolciaria napoletana. Celebrità culinarie come le sfogliatelle, le zeppole, sono il frutto della bravura e l’inventiva di alcune delle più famose residenze religiose.
Napoli a metà del 1500 contava ben 34 monasteri, la maggior parte edificati soprattutto nel medioevo, sotto la dominazione angioina che vide accrescere in numero esponenziale la costruzione di chiese e conventi. All’interno di questi monasteri confluivano soprattutto secondogenite di famiglie nobiliari costrette alla clausura, il più delle volte per mancanza di una ricca dote adeguata al matrimonio. E così nel silenzio di questi luoghi appartati, lontani dalla frenesia della vita cittadina, le suore si dedicavano a diverse mansioni e alla realizzazione di dolci. Dal XV al XIX secolo, prima della vera e propria nascita delle pasticcerie, i dolci erano realizzati dalle monache, inventandone di nuovi e da qui arrivavano sulle tavole dei nobili, come dono, per contraccambiare i favori ricevuti. Se si pensa che il più delle volte queste ragazze erano costrette alla clausura forzata contro la loro volontà, il preparare e donare i dolci era una delle poche forme di libertà e contatto con il mondo esterno.
Il dolce più antico secondo tradizione, sono gli struffoli, essi però non sono frutto dell’inventiva delle suore ma la loro origine risale alla Palepoli greca ovvero la città di Parthenope fondata alla fine dell’VIII sec. a. C.

Un impasto di acqua e farina veniva lasciato friggere nell’olio bollente, tagliato a pezzettini e cosparso di miele fuso, mentre le chiacchiere, dolce tipico di Carnevale,si dice si debbano ad Apicio, un gastronomo dell’antica Roma, il quale ne descrive la ricetta in un suo ricettario.
Ma come detto in precedenza i luoghi per eccellenza che hanno visto la nascita dei più famosi dolci della pasticceria napoletana sono i conventi, se si pensa alla regina della pasticceria la sfogliatella, essa nasce nel convento di Santa Rosa da Lima nella meravigliosa costiera amalfitana e precisamente a Conca dei Marini. È qui che le suore ispirate dalla bellezza dei luoghi realizzarono la santa rosa, sorella maggiore della sfogliatella. Tradizione vuole che una suora avendo avanzata un po’ di semola cotta nel latte, non volendo buttarla, vi mischio all’interno della frutta secca, zucchero e liquore al limone. Preparò poi due sfoglie di pasta con strutto e vino bianco, vi sistemò al centro il ripieno dando al dolce la forma di cappuccio di monaco. Arrivò qui ai primi del 1800 un certo Pasquale Pintauro, che portò a Napoli la Santarosa, la diffuse modificandola: eliminò la crema pasticciera e l’amarena, accorciò la forma a cappuccio di monaco e nacque così sfogliatella.

Si racconta che le altre versioni della sfogliatella ovvero la frolla e la riccia siano state perfezionate rispettivamente la prima nel convento della Croce di Lucca, di cui oggi esiste solo la chiesa, e la seconda nel convento di S. Antonio a Port’Alba.
E sua maestà la pastiera? Le prime rudimentali tracce della pastiera risalgono alle feste pagane celebrate per il ritorno della primavera dove le sacerdotesse legate al culto di Cerere portavano in dono uova, crema di ricotta e grano cotto simboli di rinascita. Le suore invece di un qualche monastero napoletano, unirono questi ingredienti ai fiori d’arancio e al cedro per realizzare un dolce che parlasse di Resurrezione. È dai conventi che poi si diffuse in tutto il regno fino a comparire sulle tavole dei sovrani e questo dolce prelibato fu capace di ridare il sorriso alla austera regina Maria Teresa D’Austria, moglie di Ferdinando II di Borbone.

Per il Babà bisogna emigrare in un paese straniero e in particolare in Polonia, la storia narra che il re di Polonia Stanislao, fu spodestato da Pietro il grande, zar russo, e che gli fosse stata tolta la Polonia in cambio del Ducato di Lorena. Il povero re annoiato della vita di corte in questo piccolo ducato, esigeva ogni giorno qualcosa di dolce e gli veniva servito sempre il “kugelhupf”, ovvero un dolce tipico di quel territorio ma insignificante, tanto da non allettare il palato del sovrano. Fu così che un giorno il re lanciò lontano il piatto di questo dolce che andò a scaraventarsi contro le bottiglia di rhum e il liquore si rovesciò sul dolce che si inzuppò completamente. Il re prese un cucchiaino e lo assaggiò, per chi ha provato almeno una volta nella vita il babà saprà benissimo quale esplosione di sapori abbiano provato le papille gustative del re polacco. Il dolce fu chiamato Babà in onore di Alì Babà, protagonista de “Le mille e una notte”, e una volta arrivato a Parigi, fece poi successivamente la sua comparsa sulle tavole dei Napoletani.
Ancora la famosa pasta reale o pasta di mandorle è attribuita alle suore del convento di San Gregorio Armeno, convento e chiesa che si trovano nel cuore del centro antico della città di Napoli. L’origine del nome di questo dolce risale al re Ferdinando IV di Borbone, si racconta che un pomeriggio il re si fosse recato in visita al convento di san Gregorio e poi accompagnato dalle suore al tavolo del refettorio dove in bella mostra, vi era ogni specie di pietanza, il re assaggiò uno di quei cibi e con sua grande sorpresa scoprì che si trattava di dolci realizzati con la pasta di mandorle e dipinti a mano.
Quanti dolci poi legati alla gastronomia napoletana del periodo natalizio come i susamielli, realizzati dalle suore del convento di Donnaregina e S.Maria della Sapienza, dolci di sesamo e miele, la cui origine va ricercata nell’antica Grecia e in particolare legati al culto di Demetra e Core. I susamielli nella tradizione napoletana erano di tre versioni: con ingredienti di scarto per i poveri, con marmellata per i prelati e con farina bianca e pisto (un mix di spezie in polvere) per la nobiltà. Una versione tonda del susamiello è il roccocò, dal francese rocaille, altro dolce immancabile sulle tavole dei napoletani nel periodo natalizio.
Ancora a Natale si gustano i mostaccoli e raffioli, realizzati con un pan di spagna e ricoperti i primi di cioccolata e i secondi di una glassa di cioccolata bianca e la cui origine va fatta risalire alle clarisse del Monastero di Santa Chiara.
Ed infine non può mancare la Zeppola di san Giuseppe, dedicata al padre terreste di Gesù e realizzato il 19 marzo, oggi festa del papà. Anche questo dolce, una sorta di bignè ricoperto da crema pasticciera e amarena, si dice inventato nel meraviglioso chiostro di Santa Chiara, la cui luce e i colori delle maioliche ispirarono le monache alla realizzazione di questo nuovo “peccato di gola”. Vi aspetto per una golosa passeggiata!
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Ciao, sono Roberta Paparo, guida turistica della Regione Campania dal 2011 e laureata in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali. Amo il mio lavoro perché adoro la mia terra e tutto ciò che di bello ha da offrire.
Lavorare come Guida mi dà al possibilità di studiare e scoprire aspetti sempre nuovi ed interessanti del territorio campano, dalle bellezze storico-artistiche a quelle del paesaggio, dalle tradizioni popolari e folkloriche alle leggende e ai miti, rinnovando le mie conoscenze e visitando luoghi diversi ogni giorno.
Inoltre, amo anche l’arte a 360°, dalle arti figurative al teatro, dalla danza alla musica. Proprio per questo, recito nella compagnia teatrale amatoriale “Gli ardisti” da oltre 20 anni ed ho partecipato a diversi laboratori teatrali che mi hanno aiutata anche nell’approcciarmi in modo diverso rispetto ad una semplice visita guidata, cercando di coinvolgere i turisti in una esperienza che gli permetta di essere protagonisti e non passivi ascoltatori, con la speranza che tornando a casa possano portare con sé un po’ di Napoli nel cuore.