Il termine “terre alte” evoca spontaneamente l’immagine di cime ardite, pinnacoli e guglie dove poter ammirare il salto del camoscio e il volo dell’aquila, meta degli alpinisti a quattro zampe sul soffitto del mondo. Una fotografia senz’altro suggestiva e romantica, ma estremamente parziale e monodimensionale. La magnificenza delle alte cattedrali della terra e la crescente frenesia dei fondovalle rischiano di avvolgere nell’ombra fisica e metaforica le “montagne di mezzo”: in passato rese faticosamente spazio abitabile, oggi vittima dell’abbandono e soffocate nella morsa della vegetazione e degli imperanti modelli culturali.
Ecco le vere “terre alte”, montuose e montane, perché ai caratteri puramente fisici della montagna siano coniugati quelli antropologici, ovvero le storie e le relazioni di popoli e individui che dei monti hanno affrontato i pericoli ma ne hanno anche colto le opportunità.

La Liguria, troppo spesso celebrata esclusivamente per i suoi lidi, consente invero di apprezzare appieno l’essenza della montagna luogo di vita, lontana dal clamore mediatico delle confezionate montagne-vetrina. Nicchie paesaggistiche ancora presenti, seppure minacciate; tanto fu lungo e faticoso il processo di costruzione, tanto repentino è il degrado di muri e sentieri dopo l’abbandono. L’amore per la proprio terra spinse uomini e donne a inventare nuovi modi di vivere, a essere contadini, allevatori e costruttori, il cui instancabile lavorio ha lasciato mute testimonianze riconoscibili.
Oggi, quello stesso amore deve portare a riscoprire quei luoghi un tempo animati, a prendersene cura con passione e consapevolezza, ribaltando la prospettiva oramai imperante. Infatti, l’idea della montagna come “punto panoramico” ha colonizzato buona parte dell’immaginario, come dimostrano le sempre più diffuse “Big Bench”: panchine giganti e policrome che voltano le spalle al passato della colonizzazione dei monti e invitano il turista a contemplare il panorama a valle, dimenticando i versanti retrostanti su cui poggia, il paesaggio costruito e l’eredità storica del territorio. Moderni non-luoghi che ti fanno sentire dappertutto e da nessuna parte.
Fortunatamente non mancano associazioni di volontari che tornano a farsi custodi del territorio, disegnando itinerari e organizzando manifestazioni volte a privilegiare i temi della salvaguardia del paesaggio e del suo valore culturale rispetto alla fruizione turistica di massa.
Approcci e filosofie alternative che aprono diverse strade per la frequentazione della montagna: spetta a ognuno di noi scegliere quale percorrere.
Le terre alte di Arenzano (Rensen)
Il comune di Arenzano, splendida località di mare a pochi chilometri da Genova, è coerentemente classificato come alpino grazie a un territorio che si estende su un dislivello di gran lunga superiore alla soglia dei 600 metri. Alle spalle del centro abitato si ergono versanti apparentemente inospitali ma che in realtà offrono al visitatore un caso emblematico e per nulla scontato di montagna di mezzo.
Infatti, sulle alture arenzanesi prende forma una costellazione di ripari, vecchie case rurali e muretti a secco che, almeno fino al 1950, era ancora abitata e attivamente gestita. Il tutto inserito nella cornice del Parco Regionale Naturale del Monte Beigua, l’area protetta più vasta della Liguria, dal novembre 2015 riconosciuto come sito UNESCO nell’ambito della prestigiosa lista degli UNESCO Global Geoparks.

Ogni riparo è letteralmente una poesia nata per l’emozione di uno che arriva a toccare l’anima di tanti.
Ancora oggi, per chi sale in montagna il riparo trasforma in modo magico un posto selvaggio ed estraneo in un posto sicuro e accogliente, da considerare istintivamente un po’ anche casa propria. Labili tracce e vecchi tratturi raccontano la storia di tante generazioni che in passato hanno vissuto il territorio con quel poco che vi era a disposizione. Tornare a percorrere gli stessi sentieri che seguivano i contadini quando dovevano condurre il bestiame o raggiungere i prati per la fienagione offre l’occasione di raggiungere l’ampio crinale facendo tappa presso i numerosi ripari.
La suggestiva possibilità di sostare all’interno di una di queste strutture in pietra, in quota e affacciate sul mare, consente di apprezzarne pienamente il valore identitario e di sentirsi parte integrante di un paesaggio estremamente eterogeneo. Dai ripari si gode di uno sguardo privilegiato sulla complessità delle terre alte liguri, dove il rapsodico susseguirsi di variazioni microclimatiche e i diversi substrati rocciosi conferiscono caratteristiche uniche, testimoniate dall’incontro di specie animali e vegetali molto diverse tra loro e dalla presenza di significativi endemismi.

Se alcuni sentieri risultano ancora percorribili e se lungo gli stessi non si incontrano unicamente ruderi lo si deve all’encomiabile opera di gruppi e associazioni di volontari, sulle cui spalle grava interamente il duro lavoro di ripristino, recupero e mantenimento delle strutture sparse sul territorio.
Da oltre dieci anni è infatti venuta meno la possibilità di avvalersi del fondamentale contributo della Comunità Montana Argentea, soppressa, alla pari delle altre Comunità Montane della Liguria, il 30 Aprile 2011 in applicazione di quanto disposto dalle Leggi Regionali n. 23/2010 e n. 7/2011. La mancata predisposizione di organi sostitutivi rappresenta praticamente un unicum su base nazionale che getta ulteriore discredito sulla Regione Liguria in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio paesaggistico e territoriale, principio irrinunciabile non solo ai fini di conservare una “memoria storica” ma anche di consentire un presidio in contrasto ai fenomeni di dissesto idrogeologico e agli incendi boschivi.
Il degrado derivante dall’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali trova pertanto la sola resistenza messa in campo dai volontari della locale sottosezione del CAI, dei gruppi Scout e di neonate associazioni (“U Gruppu”, Sezione ANA di Arenzano), fondate per aggregare persone che da anni esercitavano, in forma diversa, attività di recupero e valorizzazione del territorio. Realtà preziose e insostituibili che meritano e necessitano del massimo sostegno pubblico e privato.
Dunque incamminiamoci idealmente sui sentieri di Arenzano per scoprire alcuni dei luoghi maggiormente evocativi e pregni di storia.
Rifugio Argentea (1088 m s.l.m.)
Sulla sommità della cima Pian di Lerca, nel tratto più spettacolare dell’Alta Via dei Monti Liguri e a pochi chilometri in linea d’aria dal mare, si erge una piccola perla: il Rifugio Argentea.
L’edificio originario venne eretto per scopi militari e durante la seconda Guerra Mondiale venne usato dalle milizie italiane. Al termine del confitto la casermetta fu abbandonata e le tegole che ne ricoprivano il tetto vennero asportate, condannando la struttura a una serie di inevitabili crolli sotto l’impeto degli agenti atmosferici. La vista del rudere sull’ampio crinale erboso ha rappresentato per anni il simbolo della trascuratezza e della mancata valorizzazione del territorio arenzanese.
Il recupero del riparo fu reso possibile grazie all’encomiabile impegno di alcuni soci della locale sottosezione del Cai e dell’allora Comunità Montana Argentea e ha trovato nuova linfa dal momento dell’acquisto della struttura da parte dell’Ente Parco del Beigua nell’ambito degli investimenti mirati alla gestione della Foresta Demaniale regionale Lerone. Grazie ai fondi regionali furono effettuati i primi interventi di riqualificazione strutturale ed impiantistica che hanno portato alla riapertura del rifugio nel 2014. Da allora la gestione è stata affidata alla sottosezione Cai di Arenzano, dapprima con contratti annuali e soltanto nel settembre 2021 tramite un contratto decennale di comodato d’uso, fondamentale per garantire una prospettiva e investire sulla struttura.
Il rifugio è collegato da un breve sentiero di cresta alla cima del Monte Argentea (1083 m), dove spiccano una piccola statua in marmo bianco della Madonna, posta in ricordo dell’Anno Mariano 1954, e un pilastrino eretto nel 1983 con nicchia e statuina del Gesù Bambino di Praga, la cui devozione, diffusa in tutto il mondo, trova proprio nel Santuario di Arenzano uno dei principali centri di irradiazione a livello mondiale.
Il toponimo “Argentea” si riferisce probabilmente alla presenza di minerali argentiferi nelle rocce della massiccio piuttosto che al peculiare riverbero della cima innevata. Meno dubbi avvolgono la valenza panoramica della vetta, spaziando lungo la riviera ligure da Capo Mele al Promontorio di La Spezia e lanciandosi fino alle cime delle Alpi Liguri e Marittime.

Casa “Leveasso” – Riparo “Padre Rino” (903 m s.l.m.)
Emblema della fatica e del duro lavoro sulle alture di Rensen è senz’altro il Riparo Padre Rino. Le sue origini risalgono al 1895, quando un certo Tognu u Bregiè (Antonio Caviglia), abitante della località Campo, decise di costruire una casa quale appoggio per le attività di sfalcio e pascolo. “Bregiè” era infatti un contadino che durante l’estate portava le pecore su quelle radure, fertili strappi verdi circondati da scoscese pietraie. La casa addomesticò la montagna e da allora molte famiglie della zona si sono succedute nel suo utilizzo. Al “Bregiè” si sostituì prima il “Cilampa” e nel 1925 l’edificio venne acquistato dalla famiglia “i Ruxi de Laioa”, i quali adibirono i locali al piano terreno a stalla per le vacche. Nel frattempo la struttura era ormai nota come “Casa Leveasso”, in virtù della nutrita presenza di lepri nei suoi dintorni.
La storia privata del “Leveasso” termina nel 1935, anno in cui i “Ruxi” vendettero la casa al Corpo Forestale perché venisse inclusa tra le proprietà della bandita demaniale. Per conto della Forestale vennero realizzati i primi interventi di ristrutturazione, affidati alle abili mani di artigiani locali e alla quieta resistenza dei loro muli. Nonostante il buon esito dei lavori, il periodo della Forestale si rivelò tutt’altro che fortunato. Già nel 1950 la struttura venne abbandonata, decretandone un progressivo degrado che culminò nel crollo di alcune travi e di parte del tetto.
Ancora una volta fu lo spirito indomito dei volontari ad evitare una sorte infausta per un edificio così carico di storia. Armati di sana pazienza, i tanti volontari (CAI, CRI, FIE) avviarono negli ultimi anni 70’ i contatti con la Comunità Montana Argentea e successivamente riuscirono anche a coinvolgere il Comune di Arenzano, ottenendo un cospicuo stanziamento ma dovendo comunque attendere la fine di un estenuante iter burocratico. Solo nel maggio del 1985 iniziarono i primi lavori e il nuovo riparo venne inaugurato nell’ottobre del 1987. In quell’occasione, il rifugio venne anche titolato a Padre Rino, un frate Carmelitano di Arenzano, innamorato della montagna e della natura, tragicamente scomparso a soli 36 anni il 12 Luglio 1987 nel corso dell’ascesa al “Gran Combin” in Valle d’Aosta.
Da allora il riparo è stato a lungo il luogo della memoria e del ricordo, a cui si saliva volentieri per una passeggiata nei boschi o per una festa in compagnia di amici e sconosciuti, tutti parimenti uniti dall’amore per quelle montagne e dall’ostinata volontà di non dimenticarle. Ma alla perdita dei vecchi è mancato il fiorire dei giovani e l’inesorabile scorrere del tempo non ha lasciato alcuno scampo al Riparo “Padre Rino”.
Oggi la struttura versa in uno stato di degrado tale da aver costretto il Parco del Beigua alla definitiva chiusura per l’instabilità di muri e tetto. Lo stesso sentiero di accesso che sale da Arenzano e passa dalle case di Campo, marcato con un triangolo rosso, è ormai per lunghi tratti impercorribile a causa della fitta vegetazione e del substrato sconnesso. Una ferita aperta per il territorio di Arenzano, il cui risanamento dovrebbe essere avvertito quale dovere morale e non colpevolmente derubricato a una questione per soli montanari nostalgici del passato. In questi luoghi e nelle storie delle genti che lo hanno vissuto affondano le radici che sostengono e nutrono l’identità di una comunità e il suo intimo legame con il territorio. L’uomo è una strana creatura con ali e radici, proteso verso l’alto ma destinato a perdersi nel vuoto senza la consapevolezza della terra da cui ha spiccato il volo.

Riparo “Segage” (630 m s.l.m.)
Anche se oggi sembra difficile immaginarlo, le “Segage” sono state per molto tempo la zona che più di altre riproponeva le caratteristiche del piccolo alpeggio alpino. I suoi ampi e fertili prati, abbarbicati ai piedi delle severe pareti rocciose della Rocca Turchina, hanno garantito ottime fienagioni per le famiglie di falciatori che salivano dalla frazione di Campo.
Gli “Angei”, così erano soprannominati gli abitanti della località, costruirono il riparo alla fine del 1800, così da garantirsi un riparo per affrontare le fatiche con più tranquillità. Ogni estate, per agevolare lo sfalcio, si praticava lo spietramento, raccogliendo le pietre in tanti cumuli che vennero poi usati anche per la realizzazione della “strafia”, ovvero della teleferica: lunga circa tre chilometri e mezzo, era formata da un cavo di acciaio che posava su pali in legno a loro volta sostenuti da pilastri a base quadrata costruiti in pietra a secco. La teleferica trasportava le “balle” di fieno fino a Campo e il suo percorso è ancora identificabile grazie alla testimonianza di alcuni piloni e strutture metalliche utilizzate fino agli anni 50’ del Novecento.
Anche in questo caso, la cessione delle attività agro-silvo-pastorali ha comportato la fine dell’utilità del riparo e il suo inesorabile degrado. Su richiesta del Cai di Arenzano, la Comunità Montana Argentea finanziò nel 1993 il ripristino della struttura, terminato nel 1996. Venne inoltre stipulata una convenzione con il Gruppo Scout Agesci di Arenzano perché fosse garantita la manutenzione del riparo, ma nonostante questo negli ultimi anni le “Segage” hanno progressivamente perso l’aspetto di un tempo, vittima della crescita incontrollata della vegetazione e dell’azione erosiva degli agenti atmosferici. Al pari del sentiero ad essa connesso (Triangolo rosso diretto al Riparo “Padre Rino”), la struttura versa oggigiorno in condizioni decisamente critiche.

Cà da Gava (735 m s.l.m.)
Quasi al termine della sterrata che da Località Curlo conduce al Passo della Gava, al confine tra i comuni di Arenzano e Genova, sorge la Cà da Gava, costruita nei primi del 900’ dalla famiglia Vallarino, detta “Lalö”, come riparo per il bestiame condotto al pascolo. Da quel momento, la casa ha costituito un fondamentale presidio per molti contadini arenzanesi, data la posizione estremamente favorevole e l’ampia radura che circonda la struttura, senza dimenticare l’importanza di poter godere di una preziosa risorgiva che sgorga poco lontano.
Ai contadini seguirono i cacciatori, essendo la gola della Gava un sito strategico per il passaggio di colombacci e rapaci nel periodo delle migrazioni. Le loro vecchie poste sono oggi meta di ricercatori e appassionati naturalisti, armati di innocui binocoli e cannocchiali per l’osservazione dei numerosi migratori che in primavera riempiono i cieli del Parco del Beigua.
Infine, conviene sottolineare come l’area, ancora proprietà della famiglia Vallarino, sia tenuta in buone condizioni dalla sezione ANA (Associazione Nazionale Alpini) di Arenzano, che ne ha fatto il proprio punto di ritrovo in occasione della festa annuale.

Riparo “Ai belli venti” (895 m s.l.m.)
Piccolo riparo che sorge lungo il sentiero che dal Passo della Gavetta conduce alla Rocca dell’Erxu e al gruppo delle Tardie (Tardia di Ponente e Tardia di Levante). Arroccato sulla cima di un dosso roccioso a picco sul mare, il sito è un balcone naturale impareggiabile: il panorama a 360° sulla costa e l’entroterra ligure, sulla Superba Genova e sulla Corsica è davvero di quelli che lasciano senza fiato.
Costruito negli anni 80’ da alcuni soci Cai in collaborazione con il Gruppo Scout di Arenzano, il riparo deve il suo nome a una tipica espressione del Ponente Ligure, usata comunemente per indicare il vivere all’aria aperta. Detto ciò, il vento è comunque un protagonista della zona e sferza continuamente il crinale; non a caso di fronte al riparo è stata posizionata una rosa dei venti.

Ex dazio (780 m s.l.m.)
Nei pressi del “Bric Pigheuggiu” (Pidocchio) sorge la casetta dell’ex dazio. Quello che oggi è un piccolo riparo di emergenza per escursionisti, ristrutturato nel 1988 con la collaborazione di un gruppo scout, nasconde una storia molto interessante, faticosamente ricostruita mediante un minuzioso lavoro di ricerca bibliografica tra gli archivi dei comuni del genovese. Per molto tempo si è creduto che l’edificio fosse stato costruito nel 1929 per ospitare il Daziere, impiegato con il compito di controllare le merci che venivano trasportate oltregiogo. Eppure non mancavano le testimonianze orali di cacciatori e abitanti della zona che raccontavano di una piccola casetta già nella seconda metà del 1800. Un abbaglio? In effetti nessuna carta topografica dell’Archivio di Stato e dell’Istituto Geografico Militare ne riportava la presenza.
Fortunatamente la curiosità dell’uomo non si spegne al primo risultato sconfortante e, perseverando nella ricerca, saltò fuori una carta del Regno delle due Sardegne, datata 1853, dove era indicata, nel punto esatto del dazio, la costruzione di una Cappelletta. Inoltre, su una seconda carta del 1901 compariva la scritta “Cà del Rettore” a fianco di alcuni ruderi. Tirando le somme è possibile concludere che in prossimità del crinale, al confine tra Arenzano e Genova, venne eretta prima del 1853 una Cappelletta che in un secondo momento venne riattata a casa del rettore. A inizio 900’ l’edificio risultava ormai abbandonato e rimase tale fino alla costruzione della casetta daziale, detta anche gabella, nel 1929. Le stesse pietre hanno pertanto visto il succedersi di attività e personaggi decisamente diversi, da uomini di fede a mercanti e viandanti.
I camminatori che oggi passano presso l’ex dazio non possono perdere l’occasione di compiere un breve passaggio in cima al Monte Pidocchio (815 m), dove ad aspettarli troveranno una peculiare campana, i cui rintocchi riempiranno l’ampio vallone digradante verso la bella Arenzano.
Scarpeggin (502 m s.l.m.)
La località “Scarpeggin” è un fertile versante assolato e affacciato sul paese di Arenzano e sul Mar Ligure. Le prime frequentazioni documentate riportano ad inizio 800’, quando alcune famiglie di contadini cominciarono a modellare il versante erigendo muretti a secco e ricavando delle fasce piane. Poter coltivare ad alta quota significava guadagnare tempo, ritardando alcuni raccolti rispetto a quanto avveniva a fondo valle e quindi assicurandosi una maggior disponibilità di determinati prodotti. L’utilizzo della fasce in montagna permetteva ad esempio di far crescere piantine novelle di asparagi da seminare successivamente negli orti in paese.
Il riparo venne pertanto costruito per fornire appoggio e ricovero ai contadini e falciatori, rinfrancati dalla sicurezza di un tetto sotto cui ripararsi in caso di burrasca e dove mantenere asciutto il fieno. L’edificio venne eretto contro una grande parete rocciosa, interamente ricoperta dall’edera. La crescita rigogliosa del rampicante sorprese a tal punto i costruttori da nominare inizialmente il riparo “Leluò”, termine del dialetto genovese che significa per l’appunto edera. Nel corso degli anni è però rimasto in uso il solo toponimo “Scarpeggin”.
Mancati gli ultimi contadini, il riparo cadde in disgrazia e rimase abbandonato per quasi un secolo. Lo “Scarpeggin” tornò a rivivere negli anni 90’, in seguito alla realizzazione di un progetto di ristrutturazione voluto dalla Comunità Montana Argentea e finanziato dalla Regione Liguria. I soci volontari del Cai portarono a termine i lavori, risistemando anche il terreno intorno e aprendo alcune vie di arrampicata sulle vicine pareti rocciose. Inaugurato nel settembre 1994, il riparo “Scarpeggin” è diventato presto una meta particolarmente frequentata da escursionisti e arrampicatori, diventando uno dei punti di incontro prediletti dove trascorrere alcune festività, in primis quella del Primo Maggio, gustando fave e salame come da tradizione.
Nel corso del 2021/2022 sono stati realizzati nuovi lavori di rifacimento e ampliamento della struttura ad opera dell’Organizzazione di Volontariato “U Gruppu”, migliorando la sicurezza della struttura e garantendone nuovamente la piena fruibilità.

Riparo “Sambügu” (443 m s.l.m.)
Piccolo riparo costruito a partire dal 1930, quando il Corpo Forestale intervenne con un rimboschimento nella “Bandita Demaniale Val Lerone”. Sito in prossimità del Rio Guadi, è immerso in una fitta rete di sentieri e muretti in pietra a secco, abilmente tracciati ed eretti dagli stessi uomini della Forestale in concomitanza con la costruzione del riparo.
Abbandonato a partire dalla seconda metà del secolo scorso, il suo ripristino e riattamento a confortevole bivacco escursionistico è stato realizzato dai volontari dell’associazione “U Gruppu” nel corso del 2014. Oggi il “Sambugu” è un’ambita meta per gruppi di escursionisti che vogliono trascorrere una o più giornate di quiete sulle alture arenzanesi, lontano dal frastuono della città.

Case Freghee (188 m s.l.m.)
In località “Freghee”, poco sopra il facile sentiero che conduce al Ponte di Negrone, si nascondono nel fitto della vegetazione i ruderi di un antico villaggio rurale. La storia narra che alle “Freghee”, intorno all’anno 1797, vi si barricò il generale Massena alla guida delle truppe francesi. Assediato dagli austriaci, riuscì infine a fuggire dopo una sanguinosa battaglia. Ma chi costruì il villaggio che salvò Massena e i suoi uomini? Riflettendo sul toponimo non si può che ipotizzare un’origine nordica, più precisamente longobarda, per il piccolo nucleo delle “Freghee”. Molto probabilmente nacque come comune chiuso, dove tutti gli armenti potevano pascolare liberi entro un grande recinto, chiamato “gard” presso i Longobardi. Il bestiame è ormai assente da tempo e la zona è ormai nascosta nella boscaglia e letteralmente invasa dai cinghiali, ben più impattanti di una truppa longobarda.
Cianella (418 m s.l.m.)
La “Cianella” è uno dei tanti ripari costruiti dalle famiglie di falciatori al fine di garantirsi un ricovero dove ripararsi in caso di improvviso maltempo e dove poter mettere al sicuro dalle intemperie il fieno. Su un muro interno della struttura si può leggere la data della costruzione: 1889. Il toponimo deriva dal termine genovese “cian”, che significa piano. Infatti, di fronte alla casa si estende un piccolo spiazzo pianeggiante che risalta rispetto alla restante pendenza del versante. I contadini dediti alla fienagione usarono la “Cianella” ogni estate fino al 1945 circa. A differenza di altri ripari, la “Cianella”, probabilmente per la facilità di accesso alla zona, non rimase a lungo abbandonata. In questo caso, il recupero venne effettuato dal gruppo Scout Agesci di Arenzano, interessato a farne una base per le uscite domenicali. Al termine dei lavori di ripristino, il riparo venne anche soprannominato “Salamandre”, in onore dell’anfibio facilmente osservabile in zona, una nicchia particolarmente umida e ideale per la sua presenza. Nonostante l’iniziale entusiasmo, la “Cianella” ha vissuto un secondo momento di abbandono, culminato nel parziale crollo del tetto. Si resero pertanto necessari nuovi interventi di ristrutturazione, questa volta ad opera dei volontari del gruppo CRI Antincendio di Arenzano, per rendere il riparo nuovamente fruibile agli escursionisti. La “Cianella” rappresenta oggi una meta ideale per una facile passeggiata in famiglia, offrendo ombra e acqua fresca di sorgente per una pausa ritemprante.
I ripari menzionati e raccontati sono soltanto alcune delle tante strutture e quindi storie che costellano le terre alte arenzanesi. Spesso a far da discrimine per le loro sorti è stato e rimane il grado di frequentazione dell’itinerario e dei sentieri ad essi connessi. Per tale ragione si assiste al ripristino della piena agibilità per alcune strutture (Beppillu, Levee, Cima del Pozzo) e al totale abbandono di altre (Lavaggiu Vivu, Benedetta ecc.). La spendibilità eco-turistica deve sicuramente giocare un ruolo primario nel definire la priorità e la sostenibilità economica degli interventi, ma non può essere l’unico parametro di valutazione. Il patrimonio storico-culturale si compone anche di molti siti e strutture (case carbunee, neviere, ripari), il cui pregio paesaggistico risulta estremamente significativo a prescindere dalla loro posizione e accessibilità. Il riconoscere la perifericità di alcune zone, condizione odierna che spesso non riflette la realtà del passato, dovrebbe piuttosto stimolare la creazione di nuovi itinerari e proposte che le riportino al centro dell’offerta, garantendo in tal modo la valorizzazione dell’intero territorio e non solo di alcune isole felici, tristemente circondate da un mare di decadenza. L’ambizioso compito di centrare simili obiettivi non può continuare a ricadere esclusivamente sul mondo del volontariato, il cui contributo rimane comunque irrinunciabile e meritevole di un riconoscimento concreto e quantificabile. Le istituzioni dovranno tornare a essere protagoniste, mettendo in campo tutte le competenze necessarie a produrre progetti che consentano di intercettare nuove risorse economiche e umane.
Le montagne di mezzo sono la quintessenza del paesaggio fragile, destinato a scomparire in assenza di una reazione forte e univoca, per non dire rivoluzionaria. Una rivoluzione che può e deve iniziare da ognuno di noi, scegliendo di vivere e frequentare la montagna non più come un luogo al servizio dell’escursionista o turista, bensì ponendo questi ultimi al servizio della montagna.
Sono Luca Caviglia, Accompagnatore di Media Montagna iscritto al Collegio delle Guide Alpine della Liguria e membro del gruppo di Accompagnatori e Guide Alpine “Hike&Climb Liguria”. Nato a Genova nel 1991, mi sono prima laureato in “Scienze Naturali” presso l’Università degli Studi di Genova e successivamente ho conseguito il titolo Magistrale in “Evoluzione del comportamento animale e dell’uomo” presso l’Università degli Studi di Torino, con specializzazione in ricerca e gestione di carnivori e ungulati. Amo la montagna in tutti i suoi molteplici aspetti e ogni mia escursione vuole essere una tavolozza piena di colori, con cui dipingere insieme ai partecipanti le meraviglie del nostro territorio.