Tante volte l’immaginario cinematografico che dipinge il Medioevo ce lo fa purtroppo pensare soltanto come un’epoca grigiastra, scuretta non solo nella sua natura di secoli bui, ma anche stinta a livello coloristico: così come l’idea che abbiamo del mondo greco-romano è spesso monopolizzata dal candore del marmo bianco. Al contrario, sia gli antichi amavano il colore, anche forte, nelle loro città, sia ai medievali piaceva dipingere e gli interni e gli esterni delle proprie case non appena avevano l’occasione, e i fondi, per farlo. Soprattutto la società cortese del Basso Medioevo, quella delle dame e principesse dai vestiti eleganti cantate nei poemi dell’epoca, amava certamente spendersi per abitazioni in cui i muri stimolassero di continuo l’occhio, e parlassero eloquentemente a chi ci viveva in mezzo.
Se in Friuli l’esterno del Castello di Spilimbergo ci mostra uno degli esempi più impressionanti di quest’amore giunto sino al Rinascimento, e un interno di Casa Cavazzini a Udine rivela fantasiose decorazioni pigliate dai bestiari su cui tanto amava fermarsi (colpevolemente) lo sguardo di Adso ne Il Nome della Rosa, a Pordenone il Palazzo dei Conti Ricchieri rivela poi la passione dei proprietari proprio per quelle avventure cavalleresche, narrate dalle canzoni del ciclo carolingio e di Tristano e Isotta, piene di dame eleganti e cavalieri con vessilli multicolori. Le pareti delle stanze dei due piani superiori dell’abitazione sono infatti ammantate di affreschi eseguiti a fine ‘300 e inizio ‘400: al secondo piano, ora si affastellano gli stemmi e le armature dei guerrieri a cavallo, ora delle figure allegoriche campeggiano attorniate solo dai propri parafernali simbolici.



Nella scena di folla, le sagome dei cavalieri si sovrappongono le une alle altre, con le zampe dei loro destrieri tipicamente allineate per scandire una profondità più suggerita che dimostrata: analogamente, al piano di sotto, uno dei viaggi per mare del ciclo del Tristano è rappresentato facendo fuoriuscire il pennone dell’imbarcazione dei protagonisti direttamente al di là della linea del promontorio della costa, costa sulla quale si muovono figure delle stesse dimensioni di quelle fra le onde. È l’idea di ordine e rappresentazione medievale, in cui volentieri la proporzione è sacrificata per la partecipazione. C’è infatti poi una giostra in cui su cavalli rampanti si affrontano i contendenti, l’eroe Tristano e Palamede, che sono sormontati da un anello di mura dal quale spiccano gli sproporzionati busti di Isotta e della sua damigella: qui, sebbene ci siano scompensi nelle misure e schematismi nelle figure, la scena ha un più ampio respiro.
Nelle imprese e nelle riunioni di cavalieri e donzelle, i Riccchieri e i loro ospiti potevano continuamente vedere degli esempi del modo di comportarsi dettato dal codice cavalleresco a cui dovevano ispirarsi per nobiltà: oltre a potersi riconoscere nelle gesta dei protagonisti e specchiarsi nelle loro conquiste. Un valore educativo che possedevano anche le cantinelle ora esposte al primo piano, cioè delle tavolette lignee che erano fatte per essere incassate negli spazi individuati dagli incroci delle travi del soffitto, e che erano dipinte per non far mancare stimolo all’occhio e all’anima anche guardando verso l’alto: quelle pordenonesi, che in numero di circa 200 arrivano dall’inizio del XV secolo, narrano storie di amor cortese, di caccia, di magia, miti antichi, sfide con draghi ed altri esseri soprannaturali. Naturalmente il momento giocoso e gaudente c’è sempre, e la fantasia può anche rinunciare alla didattica: in un mondo però dove sempre a tutto veniva dato un significato morale, anche magari solo per “alibi”. Questa passione dei nobili abitanti per la decorazione sulle architetture è testimoniata anche all’esterno da quelli che purtroppo sono i brani di affresco non troppo ben conservati che coronano il secondo registro di trifore del corpo centrale della facciata del Palazzo.
In realtà, tutta la via del Corso della città è insieme un memorandum a questa tendenza e una sorta di galleria a cielo aperto: le quinte dei suoi edifici sono infatti ravvivate in più punti da vari lacerti pittorici. Il Corso in questione alla fine sfocia tra l’altro davanti al Palazzo comunale, al cui pianterreno si può ammirare la robusta loggia gotica in laterizio, preceduta di poco da un bianco avancorpo rinascimentale che regge la cosiddetta Torre dell’orologio. Questa venne progettata da Pomponio Amalteo, più noto come pittore, e che fu anche
genero di quel Giovanni Antonio de’ Sacchis che è stato ed è la gloria artistica della città, concorrendo peraltro con la sua sola memoria a farla rammentare a tutti gli appassionati d’arte. Sui libri di storia, costui è infatti ricordato come il Pordenone, utilizzando come nome d’arte la denominazione del foro natale, come accade ad esempio con il Caravaggio e il Correggio. Sia il Pordenone che l’Amalteo hanno lasciato pregiati saggi della propria bravura subito a destra del Palazzo Comunale, nel Duomo cittadino: ancora alla destra di questo c’è poi, contiguo al sagrato, proprio il Palazzo dei Ricchieri, in una sorta di stretta trangolazione pordenonese per gli appassionati d’arte.
Il Palazzo infatti non ospita soltanto gli affreschi e le cantinelle di cui abbiamo parlato sopra, ma anche molte altre opere (tra cui pure alcune di mano del Pordenone, ovviamente: ma ci arriveremo subito), dato che è proprio qui che si trova il Museo Civico di cui ci occupiamo oggi. Quella che nel XIII secolo nacque come una classica casa-torre nobiliare mostra ora i frutti del rammodernamento eseguito duecento anni dopo secondo la moda veneta: allora si aprirono i due ordini di trifore nel corpo principale, mentre dopo altri duecento anni si espanse il numero di finestre alle ali laterali. Sempre del Seicento è il bello scalone d’onore che accompagna il visitatore dritto sino al secondo piano, e che bisogna salire subito fino in cima, dato che il tour si svolge in senso discendente: non poteva mancare pure qui colore sulle pareti, che è dato dai ritratti di vari membri della casata nobiliare e anche dall’affresco del grande stemma di famiglia, con due aquile d’argento e due ghirlande fiorite su fondo rosso. Peraltro, questo non è nemmeno l’ultimo caso di decorazione parietale che incontreremo.



Dunque, giunti all’ultima sala dell’ala di sinistra, si può finalmente iniziare il percorso. In questo spazio sono custodite per lo più sculture in legno datate a partire dalla fine del XII secolo, al quale appartiene la Madonna con Bambino di ambito veronese: in essa l’artigiano ha ricavato dal ciliegio le forme secche e schematiche del romanico, di cui l’opera è un buon esempio, lasciando però parola anche alla morbidezza naturale del legno. Identico soggetto è trattato da uno scultore proveniente probabilmente sempre dallo stesso ambito ma, cronologicamente, avanti di due secoli: nella sua versione, oltre all’evolversi del naturalismo delle forme, abbiamo una testimonianza ulteriore dell’apprezzamento per il colore, al di là dell’architettura, dato che sia Madonna che Bambino ne sono coperti. In particolare, sull’abito della Vergine sono diligentemente dipinti i ricami floreali dorati che si muovono su di uno sfondo blu profondo, mentre sulle spalle della donna casca il manto che regala una nota di rosso alla composizione. In questa sezione, c’è comunque spazio anche per la scultura litica: sempre una Madonna, ma ora da sola, di mano del Pilacorte, ticinese che installò la propria bottega a Spilimbergo, dove lavorò e da dove invio lavori in buona parte del Friuli. Maria è invece di nuovo in compagnia del Bambino nell’opera che in questa parte del museo rappresenta la pittura, ovvero un interessante esempio di come lo stile bizantino si evolse dopo la caduta dell’Impero: la mano che lavorò questo fondo oro è quella di Andreas Ritzos (italianizzato in Andrea Rizo) da Candia, città del Nord di Creta. L’isola, sia si trovava al tempo nell’area di influenza veneziana, sia diede il nome a quella scuola, a cui appunto apparteneva anche Ritzos, che portò avanti i modi delle icone bizantine-slave ma integrandoli con accenni naturalistici occidentali. Qui questo processo si può vedere in una resa delle ombre delicata e che cerca di svilupparsi al di là del simbolismo, oppure nella descrizione del tondo volto di Gesù e della sua torsione vivace del collo sulla spalla sinistra.



Passando nel corridoio che divide l’abitato perpendicolarmente su tutti i piani, si giunge allora ad incontrare le opere del Pordenone: non prima però di aver assistito al dialogo familiare tra la grande macchina lignea su due piani che è l’ancona di Domenico Mioni e le due statuette di Santi di Domenico da Tolmezzo, padre del precedente. Altresì da ammirare sono le forme molto pulite di un pregiato Crocifisso del primo Quattrocento, che porta dalla Toscana un classicismo semplice e parco di dettagli: per ridare l’effetto naturale di un corpo umano, questa scuola stilistica preferisce infatti non mettere enfasi sul numero dei dettagli e abbondare nei particolari, quanto piuttosto rendere il corpo umano come un insieme coerente ed omogeno di membra. Per fare ciò, lo scultore ha livellato le superfici dei vari rigonfiamenti del corpo perché passassero fluidamente le une nelle altre, attenuandone i volumi ed ottenendo sia di rendere le giunture morbide e naturali, sia la figura equilibrata e posata.



Il Pordenone, quindi: questo pittore fu molto famoso in tutta Italia ai suoi tempi, e ammirato per la sua innata capacità di trasmettere sia il gusto della pittura veneta per il colore e l’atmosfera e la luce, che quello tosco- romano cinquecentesco per la robustezza e l’imponenza e la solennità delle figure. Una sintesi mirabile di questi motivi è come già accennato presente nel Duomo qui vicino, nella Pala della Misericordia, soprattutto nel San Cristoforo, tuttavia anche a Palazzo Ricchieri si possono avere degli indizi sulla ragione per cui si narra che Tiziano Vecellio in persona si fosse molto spaventato (addirittura) per la pericolosa concorrenza che il friulano poteva fargli in laguna: nel San Gottardo in trono tra San Sebastiano e San Rocco, ad esempio, il de’ Sacchis traccia le tre figure dei santi come tre telamoni antichi, pieni e robusti. Dalla Chiesa di San Francesco in città proviene poi la sagoma in legno dipinto di un San Giovanni afflitto, dove si può vedere la capacità del nostro di infondere pathos agli uomini rappresentati descrivendo espressivamente le smorfie dei loro volti, ma anche di farlo con i contrasti tra i colori e le ombre: le vesti del Santo sono di un rosso e di un verde nitidi che perciò contrastano fortemente tra di loro, colpendo quindi l’occhio, ma sono pure un tuffarsi di pieghe nell’ombra fosca di altre pieghe, una situazione che continuamente porta lo sguardo a perdersi in zone di buio e risalire in brani illuminati. Le parti in luce, in cui pare trovarsi calma e salvezza, sono sempre comunque minacciate dalla vicinanza di altre ombre, le quali paiono volersi diffondere al di là delle loro sfumature. Il pezzo di maggior bravura del Pordenone in museo è però incarnato dal particolare di un affresco staccato sempre da San Francesco, che rappresenta solamente un anonimo Santo dell’ordine del poverello d’Assisi: in questo quadrato di poche decine di centimetri di lato, il ritratto non ha tanto i connotati espressivi di un frate di povera vita, pare più un condottiero che volge il proprio sguardo al di là della rappresentazione, con l’occhio che brilla di intuizione, e il mento e il naso fermi, ma modellati con delicatissima precisione dalle sfumature umbratili del pittore.
Ammirato il Pordenone e le sue imprese, si passa quindi ad un ambiente molto particolare: oltre ad un arco a sesto fortemente ribassato si apre infatti uno spazio decorato a fresco con scene mitologiche entro cornici anch’esse dipinte. I colori tenui ma luminosi e le forme voluttuose fanno pensare al Barocco o al Rococò, mentre due sculture lignee cinquecentesche di ambito veneto-friulano fanno la guardia a questo spazio dal basso soffitto, che pare perfetto per il ritiro privato. Le decorazioni a linee fluttuanti continuano anche nella stanza attigua, in cui si segnala per la sua finezza un ritratto di ignoto monaco benedettino di mano di Giovan Francesco Caroto: lo sfondo azzurrino è terso, ma rende al tempo stesso il peso dell’aria di cui è fatto, mentre i dettagli del viso del religioso sono dati in punta di pennello. Il suo volto, contornato dal cappuccio nero dell’abito dell’ordine, brilla sia per contrasto con quest’ultimo che per la diligente premura con cui l’artista
ha cercato di mettere la stessa quantità di luce in tutte le proprie pennellate, così da farlo apparire davvero illuminato.



Se nel Caroto possiamo vedere in opera l’indagine della luce della pittura veneto-lombarda, scesi di un piano abbiamo un tondo che invece esemplifica il gusto fiammingo per le scene di vita popolare raccontata nei dettagli: da un paesello del nord vediamo uno spaccato del quotidiano tra fine Cinque ed inizio Seicento, come si può intuire dalle gorgiere di una delle dame e dai mantelli scuri degli altri personaggi, in un inverno così freddo da aver gelato il fiumiciattolo su cui i protagonisti camminano. Il tondo è per gusto affine alla scuola dei Brueghel e di piccole dimensioni: tutto il contrario della pala che giganteggia in fondo alla sala con il suo vorticare di putti ed angeli attorno ad un Crocifisso scorciato e affrontato da Dio Padre. Essa è di mano di Gasparo Narvesa, pordenonese ed allievo del Pordenone. A quest’opera fa da pendant all’altra estremità del corridoio la grande tela che il Padovanino dipinse per il Consiglio comunale, e che doveva abbellire la sala delle riunioni del Palazzo dove questo si incontrava: nella composizione, leggermente di sott’in su, si possono riconoscere gli azzurri e i rosati forti e sgargianti che andavano di moda a Venezia a cavallo tra XVI e XVII secolo, e che sono tipici anche di Palma il Giovane. Analogamente condivise dai due pittori le ombre altrettanto forti che vanno ad interrompere quei fucsia decisi e quegli azzurri cielo delle vesti dei personaggi, creando un certo contrasto nel passaggio repentino tra il colore vivo e vivace e l’oscurità drammatica.



Di questa sono infuse pure le due valenti tele di Antonio Carneo che stanno sopra agli aggettanti stipiti di due delle vie d’entrata ed uscita dal corridoio: le Allegorie di quello che è il più bravo pittore friulano del Seicento sono infatti quasi inghiottite dalla tenebra, con le ombre che paiono contaminare anche i pallidi incarnati dei personaggi che vi si muovono dentro. Vi è dunque una sala che ospita fra gli altri due nomi di significativo pregio del Settecento rispettivamente veneto e friulano: Giovanni Battista Pittoni per il primo e Nicola Grassi per il secondo. Dall’Ottocento arriva invece nell’ambiente successivo la bella tela di Odorico Politi, che mette in scena Elena giocata a dadi da Teseo e Piritoo: la classicità del mito da cui è estratto il soggetto è bene in linea con quella del tratto del pennello del pittore, di ponderazione ed equilibrio davvero meritevoli. Il Politi costruisce con precisione i corpi muscolosi dei due eroi, e con altrettanta sicurezza quello tornito ma vellutato della fanciulla che si stanno scommettendo. Il giocatore a sinistra è ritratto seduto con una gamba sotto all’altra, in un’atteggiamento tipicamente classicista di dinamica compostezza: se il suo braccio più lontano è infatti teso nel reggere il peso dell’uomo, quello destro si apre invece sul perno della spalla, vero centro visivo di tutta la figura, per portare verso lo scudo in cui vengono gettati i dadi la mano aperta con dentro questi ultimi. Mentre la sua carnagione abbronzata e la sua tunica venata di mattone fanno dominare in quella parte di composizione i toni intermedi del rossiccio, dall’altro lato il suo compagno di giochi, la cui figura è più raccolta e compatta, presenta invece il tipico contrasto tra colori puri di ascendenza poussiniana: azzurro chiaro e rosso tenue. Al vertice del triangolo fra i tre personaggi, Elena invece è proposta con tinte chiare e dal tono abbassato, vaganti dal bianco latte delle sue carni, che la naturale infusione di sangue rende solo poco meno pallide della sua veste, e i rosati del suo velo e dei suoi drappi: tutti e tre presentano quindi
un proprio motivo coloristico particolare, ed ognuno di questi è equilibrato dal Politi in una resa atmosferica che soffonde una leggera nebbiolina su tutta la scena, unificandone le parti.



L’artista in vita raccolse plausi dalla critica sia a Venezia, dove tra l’altro era professore dell’Accademia, sia a Milano, quando ad esempio inviò all’Accademia di Brera una prima versione proprio dell’opera pordenonese: inoltre, a Roma il Politi aveva anche fatto parte della cerchia del massimo scultore neoclassicista italiano, ossia Antonio Canova, del quale certamente ammirò la lezione. D’ispirazione canoviana sono anche le prime opere di un altro figlio di Pordenone, lo scultore Antonio Marsure, rappresentato in Museo da un Giasone, un Prometeo e una testa di Ebe evidentemente memore delle omonime del Canova: le prime due opere sono in gesso, ed essendo esposte innanzi ad un ambiente a volta ribassata gemello di quello al piano superiore, sostituendo i Santi in legno, rievocano tutta l’impostazione della stanza sopra alle loro teste. Il gesso, come si sa, non è materiale nobile come il marmo: non riesce così delicato nei passaggi di piano, né è espressivo in quanto a dolcezza. Eppure Marsure fa un lavoro finissimo con i suoi soggetti mitici, rivelando anche una padronanza degli equilibri compositivi non scontata, soprattutto in figure così mosse ed aperte come quella del Prometeo. Il marmo carrarese della Ebe invece è molto più consono ad evidenziare sia la delicatezza del volto femminile che quella dello scalpello dell’artista: questi qui arriva a risultati toccanti, soprattutto nel lavorare i riccioli della capigliatura e le incisioni della coroncina che la regge.



Compagno di studi artistici del Marsure fu il concittadino Michelangelo Grigoletti, il quale si dedicò però alla pittura: il suo è un nome che è giusto ricordare non solo per le sue opere, ma anche perché contribuì alla nascita del Civico Museo di Pordenone, dato che la parte pittorica della raccolta che abbiamo appena scorso proviene in parte da un suo lascito alla comunità e ne fu in ogni caso il nucleo fondante. Per questo motivo è altrettanto giusto che l’ultima sala nella quale si entra e con la quale concludiamo il nostro excursus sia solo e personalmente a lui dedicata. Le prime realizzazioni del Grigoletti che quindi ci accolgono sono i disegni preparatori per i singoli personaggi che vanno poi a comporre l’opera successiva, un ritratto della famiglia Busetto Petich, di cui ogni membro ha avuto appunto uno studio a lui personalmente dedicato. Tali disegni sono anche più significativi del quadro finale, poiché, per un verso, focalizzandosi ciascuno soltanto su di un soggetto ne possono mettere in mostra meglio la natura intrinseca ed isolata dal contesto: d’altro canto, in queste realizzazioni si può vedere meglio sia la concentrazione di Grigoletti nel cogliere il carattere dei vari ritrattati, sia è più chiaro l’estro del pittore, che nei bozzetti ha più libertà rispetto ad un quadro di non modeste dimensioni come quello finale. Oltre al ritratto borghese, l’artista si cimentò anche in opere che ci riportano al mondo cavalleresco di cui si parlava all’inizio del nostro viaggio, come Tancredi che visita la salma di Clorinda: soggetto dal Tasso che ci mostra una fase di passaggio dalla gusto più neoclassico del Politi ad uno più schiettamente romantico; ma l’opera più sentita e riuscita del Grigoletti è sicuramente il doppio ritratto dei suoi genitori.
Qui non si vedono più eroi e leggende, ma personaggi reali: la vicinanza affettiva del pittore ai suoi soggetti è infatti chiara, così come è chiaro che da essa dipenda buona parte del risultato finale, un quadro in cui a guardarci a più di un secolo di distanza sono due signori di mezza età con tutto il loro vissuto: per nulla idealizzati, essi appaiono plasmati dalle loro emozioni ed esperienze, veri come dei loro coetanei che si potrebbe vedere camminando per strada.
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Simone Costantini
Ho studiato Storia dell’arte a Udine e a Milano, lavorando poi per diverse realtà museali sia in Friuli, casa mia, che nella città meneghina: sono specializzato in arte contemporanea, ma non limitato ad essa. Gironzolare per chiese e musei è quanto faccio nelle mie giornate libere: spero che quanto avete letto o leggerete di mio ve ne possa trasmettere le motivazioni e che inizierete a farlo anche voi!