Un sacello è un piccolo edificio di culto, spesso isolato, alle volte incluso in una struttura più ampia, dalla quale però tende a distaccarsi per la propria particolare identità, liturgica ma anche artistica e architettonica: è eretto solitamente in devozione e ricordo di un singolo Santo, sia nelle sue versioni più decorate, che sono quelle che spesso sono annesse a complessi più sofisticati, sia in quelle più povere e spontanee, da edicola rurale o cappella di campagna.
In generale, questi piccoli spazi hanno la capacità di creare un’atmosfera di forte intimità per coloro che li visitano: per le proprie dimensioni, infatti, a differenza delle grandi chiese, i sacelli non permettono una liturgia plurale di fronte a sé, sono piuttosto portati ad un colloquio “a tu per tu” con i loro visitatori, che vi accedono e li vedono per lo più uno alla volta o a piccoli gruppi. Specularmente, agli occhi dello spettatore la capsula del sacello isola il proprio contenuto, glielo fa risaltare: negli esempi più poveri, la struttura sembra quasi una “casetta” di e per quello che ospita, certo per via della sua semplicità, che ha appunto un che di domestico.
Quelli più ricchi d’altro canto rimandano con maggior facilità all’idea di “scrigno”, magari di tesori. In entrambi i casi si può avere l’impressione di qualcosa che sia lì per proteggere, che soprattutto nel sacello-abitazione acquista una certa sfumatura di tenerezza. Questa è aumentata dal fatto che tale sacello concentri l’attenzione con molta semplicità su qualcosa di semplice, e che a questo qualcosa di semplice sia dedicato, come anche dalla circostanza per la quale spesso sia frutto del lavoro della devozione popolare e dei suoi scarsi mezzi.

La Chiesa dei Santi Gervasio e Protasio a Nimis non è un sacello, lo si capisce dal nome, ma sicuramente ne riporta l’idea alla mente, pur essendo una chiesa. Il centro della cittadina cui appartiene è accucciato in uno spiazzo fra i rilievi che in questa zona dell’alto Friuli iniziano ad alzarsi: da qui si può infatti dire di lasciarsi alle spalle la pianura ed entrare nella parte collinare del Nord della Regione, tanto che le propaggini più settentrionali di Nimis si devono già articolare tra le alture. Invero, si ha l’impressione che il centro sia un’isola lambita dalle loro pendici su cui continua e va ad arrampicarsi sempre più rado l’abitato, e che, volendo uscire dalla zona centrale, soprattutto se si va a Nord o ad Est non si possa fare a meno di salire: soprattutto in quest’ultima direzione, però, la strada non si impenna tanto bruscamente, come invece si può percepire diringendosi a settentrione, ma per un po’ di tempo segue lo sviluppo di una collina morbida che le fa alternare piccole salite a tratti in piano. Proprio al termine di una di queste salite, ecco scenograficamente spuntare la nostra chiesetta con il suo campanile staccato: oltre ad apparirci dall’alto, il luogo di culto si trova pure un poco di sghembo rispetto al percorso stradale, fino alla fine parzialmente nascosto dalle ultime case, motivo per cui lo si può vedere pienamente solo quando quasi ci si è a ridosso.



Questo suo starsene ai margini e in posizione sopraelevata contribuiscono a dargli il tono da piccolo santuario montano o appunto da sacello cui andare in certe ricorrenze di cui si diceva sopra. È un luogo anfibio, in molti sensi: è a metà tra piano e montagna e tra abitato e esterno. Oltre ad ergersi su di un’altura, la Chiesa è pure rialzata su di un terrapieno in muratura che le dà l’aspetto di un’isola, e la stacca ulteriormente da ciò che le sta attorno. Questo cocuzzolo coronato dall’edificio ispira anche la suggestione di un piccolo spazio difensivo dove potersi rifugiare in caso di pericolo: peraltro questa funzione del sito è stata effettivamente ipotizzata sia per via della somiglianza del campanile con una vera e propria torre (si ricordi che esso non fa parte della struttura della chiesa), sia per l’antica presenza di una centa attorno al borgo che si è sviluppato intorno alla Pieve. Come che sia, sicuramente lo spazio che si crea (sui lati pure chiuso da una siepe) dà l’idea di qualcosa a sé, un luogo che racchiude un piccolo proprio mondo: un ripiano verde, con una corona d’erba che circonda la massa grigia di pietra che vi vive in mezzo. Pure la scalinata da cui si accede, nella sua modestia, vale come segnale di soglia per coloro che la salgono sotto l’ombra dell’incombente torre campanaria.


La costruzione è semplice, con facciata a capanna e un oculo al di sopra del portale d’entrata: più in alto di questo si nota anche uno dei pochi motivi decorativi esterni, un giro di archetti pensili che percorre tutto il perimetro della Pieve sotto alla linea di gronda. A fortificare il senso di alterità rispetto a quanto la circonda, vale anche il ricordo che la chiesa abbia origini molto antiche: la cita Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, nell’VIII secolo, e si è dedotto che essa risalga proprio al periodo dell’invasione dell’Italia da parte di questa popolazione barbarica che circa duecento anni prima passò dal Friuli per diffondersi poi in tutta la Penisola italiana. Un tempo certamente agitato, dove si può facilmente immaginare come la popolazione amasse stringersi attorno a certi luoghi elevati, meglio ancora se di culto. Noi, della chiesa longobarda, dagli scavi sappiamo avesse presbiterio quadrangolare e un nartece a precederla, tuttavia non possiamo vedere nulla: essa venne espansa fino alle dimensioni attuali nel XII secolo, ma il terremoto del 1348, dopo, rase al suolo quanto era stato costruito. Il rifacimento tenne conto della base su cui operava, ma venne effettuato secondo il gusto dell’epoca, anche se altri successivi interventi non garantiscono al visitatore attuale di poter effettivamente contemplare nemmeno i lineamenti gotici. D’altronde, la natura semplice dell’opera spinge a pensare che i vari mutamenti non siano andati a modificare troppo l’aspetto medievale della chiesa, se non nei punti che tra poco segnaleremo. Piuttosto che sui muri esterni, le diverse temperie che hanno toccato la Pieve sono più evidenti all’interno. Chi, come il sottoscritto di recente, abbia la fortuna di entare ai Santi Gervasio e Protasio con una bella luce mattutina, non ne può non restare colpito: quella che è capitata a me tagliava da sud-est lo spazio delle tre navate, ed ecco come mi si è presentata l’aula.

Al centro della navata principale c’è un crocifisso di legno, illuminato di fianco ma molto nitidamente nel suo incarnato di un sommesso e opaco giallino: quello tipico della pelle dipinta delle sculture lignee. Le pareti della chiesa presentano alternanza tra il bianco nitore della malta e le decorazioni dai toni chiari e sommessi: l’intonaco e le parti colorate sono così bilanciate nel loro rispettivo stimolare e far riposare l’occhio che paiono essere stati pensati in un unico progetto, studiato così che i dipinti non levino con il loro colore e i gesti dei personaggi quell’atmosfera dimessa di ritiro e raccoglimento che la chiesetta offre al viandante. Infatti, lo spazio che nell’attuale visione della chiesa il tempo o l’incuria o le possibilità umane hanno riservato a ciascun tipo di copertura, ad affresco e intonaco, è né troppo né troppo poco: il secondo è una pausa che permette di assaporare meglio il primo e, peraltro, come si è detto, quando dai muri si arriva a guardare gli affreschi, le tinte non squillanti di questi fanno sì che il passaggio non venga percepito come brusco o stonato. C’è una certa armonia d’insieme, nella complessiva cromia dello spazio: e anche per certi versi il fascino della rovina, col vecchio sopravvissuto che prende valore standosene in compagnia del nuovo. Tornando al Cristo scolpito, questo non è installato sull’altare, ma appeso a tre quarti della navata al soffitto a capriate: e così, sospeso a mezz’aria, senza la complicazione di un supporto, illuminato per bene dà ancora di più il senso di una fede spontanea venuta dall’alto ed accettata dal basso. Se ne sta poi ad un altezza non irraggiungibile, visto che il tetto ligneo (che pure trasmette semplicità, con la sua struttura minimale e rustica) non è particolarmente elevato: non si sta quindi guardando uno di quei Crocifissi che stanno “nell’alto dei cieli”, è in alto, ma a misura d’uomo. In generale, potremmo dire che le dimensioni mediane della Pieve fanno pensare ad una grande “piccola chiesa di campagna”.


Le navate laterali paiono poco interessanti, non attirano l’attenzione: colpisce solo un bel San Cristoforo con il Bambinello in spalla che, a sinistra immediatamente dopo l’entrata, ci dà il benvenuto, con le sue tinte blu e le sue delicate sfumature. Quello che si suol dire un buon inizio: tuttavia, piuttosto che fermarsi subito ad ammirarlo, si è portati a passare avanti per recuperarlo dopo, attirati dal luogo dove si concentra la maggior parte della decorazione pittorica, ossia la zona presbiteriale. La sua apparizione, con il crocifisso che vi aleggia sopra, è quella che immancabilmente colpisce l’occhio dopo aver varcato la soglia: passando oltre la scultura lignea, ma senza perderne il fascino, la vista è attirata qui da due elementi, per motivi diversi. Il primo, l’abside con il suo mosaico (moderno) in penombra, fornisce un senso di mistero e raccoglimento, ma non di vero e proprio interesse artistico: quello che invece ci chiama con più forza è l’arcone trionfale che introduce ed incornicia proprio la zona absidale.


Tale elemento architettonico è la parte di muratura in cui più ampie ed omogenee si sono conservate le testimonianze pittoriche gotiche: il XIV secolo, però, non è l’unico che abbia omaggiato la Pieve con degli affreschi. Lungo la strada che fa prima di, e per andare a sbattere contro l’arcone, il nostro sguardo infatti tende a giocare sui salti in cui si sviluppano le arcate che dividono la navata centrale da quelle laterali, tre a sinistra (a tutto sesto) e tre a destra (a sesto acuto). Eredità strutturali medievali, lungo i loro intradossi possiamo trovare ancora delle rimanenze trecentesche (su due sottarchi a sinistra), ma anche parte dell’intervento che fra fine Ottocento ed inizio Novecento fu affidato alla mano del pittore locale Tita Gori: in entrambi i casi si tratta di tondi che raffigurano grandi personalità religiose della storia (Santi e Martiri).
I balzi di queste strisce di colore portano immancabilmente sempre verso l’altare, a cui di nuovo siamo sospinti a guardare, ma se non seguiamo subito quest’istinto e ci fermiamo ancora un attimo prima di proseguire, non resteremo certo insoddisfatti: una breve spolverata ottica delle realizzazioni di Gori rivela tinte chiare, accordate tra di loro con piglio quasi tiepolesco. Poco prolisso ma preciso, il pittore si esalta nelle sfumature e nei mezzi toni, e quando rabbuia lo fa con tocchi che sembrano di carboncino: i suoi brani di pittura paiono alle volte essere come schermati da nuvole, e su di ognuno spesso Gori vaporizza altre tinte, così che ciascuno, pur nella sua omogeneità, risulta contaminato da suggestioni coloristiche esogene; non immobile e intonso, ma dolcemente contrastato. Da notare che anche queste fasce riempite da volti e busti che fanno le capriole nel mezzo dell’aula hanno un bell’effetto rispetto allo spazio attiguo, parendo dei pizzi colorati che sporgono a impreziosire il tessuto monocromo della muratura alla fine delle figure degli archi.


Finalmente si arriva all’arcone. Su di esso troviamo le scene più antiche dipinte dai frescanti trecenteschi: ci sono un’Annunciazione, una Resurrezione, una Visitazione, e una Madonna con Bambino e Santi. Queste opere, responsabili di molto del colore della Pieve, sono interessanti da un punto di vista storico e fanno certamente atmosfera, tuttavia non possono duellare con il Gori in quanto a emozione ed abilità: il colpo d’occhio che le carpisce tutte assieme, però, specialmente se da lontano è di sicuro effetto. Ci riporta indietro nel tempo in cui quelle pitture provinciali e di scarso valore vennero commissionate comunque, con lo scopo di ammaestrare i fedeli e colpirli, anche in un ambiente e in un contesto come questi. Per quegli uomini, in ogni caso, fosse buono o cattivo il risultato, lo stimolo visivo era qualcosa di importante, e il celebrare messa avvolti dalle immagini (di sicuro allora in uno stato conservativo migliore) certamente era sentito come un fattore da non tralasciare, e su cui investire appena possibile. In realtà, poi, ci si accorge che gli affreschi non sono limitati solo all’arcone, ma si estendono alla porzione di muro bucata dalle arcate nella parte subito attaccata a tale struttura: un dettaglio che può passare inosservato, perché essi si trovano perpendicolari rispetto al grande arco, e quindi guardando questo di fronte è difficile vederli. E per essere davvero esaustivi, diciamo poi che a far compagnia a questi due insiemi di pitture, guardando a destra, sul muro più esterno alla fine della navata si scorge anche un altro riquadro a fresco: questo è di un’altra scuola rispetto ai propri cugini, così come quelli in alto sulla muratura delle arcate sono di mano (o mani) diversa da quella dei lavori absidali.




Tra loro, oltre alle vicende dei Santi cui la chiesa è dedicata, spicca un San Michele Arcangelo che apre il braccio destro per reggere la lancia con cui va a colpire il demonio sotto ai suoi piedi. Di nuovo, non si tratta di grande pittura: questa figura così grande ed isolata in un riquadro tutto per sè attira però comunque per la valenza che la storia ancestrale di cui è protagonista parla, la sconfitta del Grande Male da parte del Bene, e se inoltre il tratto ingenuo con cui è tracciata non darà godimento estetico, contribuisce certo alla suggestione dell’insieme. In tal senso, non stona la fisionomia più arcaica dei Santi che ci presenta la navata destra, sui quali peraltro possiamo trovare una maggiore espressività, con in alcuni casi anche delle punte di grazia: d’altronde, molte volte, è proprio dove c’è schiettezza o anche rudezza che meglio poi emergono gli accenni più emotivi, se vi vengono mescolati. A discapito dell’isolamento e della posizione laterale, vien da pensare che questo sia il brano di pittura gotica più riuscito: certo il più interessante e comunicativo.




Ripassiamo quindi alla contemporaneità: visto quanto c’era da vedere dalla navata centrale, e pure già spostatici a destra per osservare la piccola teoria di Santi appena descritta, ci appare quindi il volume di una delle due cappelle che affiancano l’abside vero e proprio. Esse vennero costruire fra XVII e XVIII secolo, quando venne effettuata una delle diverse ricostruzioni della Pieve: naturalmente queste architetture mantengono la stessa profondità che l’abside raggiunse già in epoca gotica, e sono collegate ad esso tramite dei passaggi che permettono di muoversi lungo tutta la parte finale della chiesetta. Qui si presenta dunque la seconda metà dello sforzo decorativo del Gori, che ad ogni modo è anche l’autore del San Cristoforo che c’eravamo lasciati dietro all’entrata, e su cui torneremo a brevissimo. Lavorando in più momenti nella zona presbiteriale, l’artista dipinse in primis sulle vele delle volte a crociera delle cappellette Quattro Dottori della Chiesa per ciascuna: il suo capolavoro, però, sono i Profeti maggiori e gli Evangelisti che si possono ammirare all’interno degli archi che fanno da collegamento tra ogni cappella e quello dell’altare. Sulle superfici delle spalle e degli intradossi delle aperture, Gori può in questo caso misurarsi con figure di più ampia dimensione, e stendere il colore in maniera più libera: i risultati più ammirevoli sono quelli in cui l’artista impiega il blu marino sia nelle ombreggiature che come colore locale. Questa tinta in particolare pare essere molto amata dal pittore, che, quando va ad usarla in un luogo delle scene, tende poi ad estenderla alle sfumature di tutto l’insieme: per la sua temperie temporalesca, è con essa che Gori arriva a rendere al massimo l’effetto rannuvolato di cui avevamo parlato. Il colore acquatico aleggia in più parti delle figure e degli sfondi, e il nostro lo usa appena può, ma con sapienza: è così che va a creare un’atmosfera osmotica e coerente tra i diversi punti della sua composizione. È questo un blu che risulta anche perfetto per fornire una certa profondità meditativa ai suoi pezzi, e che, come il suo impiego, sembra che Gori abbia pescato mischiando le tradizioni venete del ‘500 e del Rococò, con un pizzico di effetto fumo più propriamente fine ‘800: un po’ simbolisteggiante, alle volte quasi sepolcrale, sicuramente riflessivo. Nella stesura, questo fumée dà un tocco di indefinito ai suoi personaggi. Dalla scuola veneta pare venire anche l’associazione della tinta con cromie calde, un po’ desaturate ma luminose, eseguita in maniera da creare un vivo contrasto per complementarietà cromatica: è quanto accade con le vesti di qualche Profeta o del leone dell’Evengelista Marco, così come con il corpo e la pella del nostro ormai affezionato San Cristoforo.



Non che la vena più chiarista del pittore, quella che ad esempio è più evidente nei tondi dei sottarchi (ma c’è anche un Profeta nell’abisde che pare essere stato appeso in cielo nel luminoso Settecento) sia meno pregiata o elaborata: solo che quando impiega le striature bluastre, l’effetto è garantito. Questo è tanto vero che, a ben guardare, appena può, anche sotto gli archi il Gori non se le fa mancare, e dipinge di blu scuro manti e vesti diffondendolo e specchiandolo poi in altri particolari: come se i brani di questo colore fornissero la base su cui poi gli altri possono stare e il collante che li fa convivere. La luce è sempre e comunque presente nelle sue composizioni: anche il colore di cui tanto stiamo parlando è infatti reso spesso in toni chiari, pur essendo scuro è irrorato di luce. Non risulta perciò pesante: nei casi in cui il Gori lo tiene in ombra, le zone che interessa portano l’occhio a sprofondare e ad accucciarsi come in un alcova, come un monaco che si chiude nella sua cella a meditare. La tecnica con cui l’artista fa dialogare i vari pezzi delle sue opere è naturalmente utilizzata con tutte le tinte, pur rimanendo le preferenze e le differenze. Uscendo, la coppia del gigante con il Bambino Gesù che ci aveva dato il benvenuto ci saluta nella luce timida ma limpida che li avvolge: gliela manda un sole di inizio primavera che noi non possiamo vedere (perché non è stato dipinto), ma che sappiamo ci sia proprio perché ne vediamo la luce che crea l’armonia di quel piccolo mondo, su cui cammina il Santo sotto un cielo celeste quasi pallido.
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Simone Costantini
Ho studiato Storia dell’arte a Udine e a Milano, lavorando poi per diverse realtà museali sia in Friuli, casa mia, che nella città meneghina: sono specializzato in arte contemporanea, ma non limitato ad essa. Gironzolare per chiese e musei è quanto faccio nelle mie giornate libere: spero che quanto avete letto o leggerete di mio ve ne possa trasmettere le motivazioni e che inizierete a farlo anche voi!