
La Valnerina è uno di quei luoghi mistici e magici che hanno reso l’Umbria famosa nel mondo. Le bellezze naturali fanno il paio con quelle storico-artistiche disseminate in questo angolo sud-orientale dell’Umbria. Uno dei gioielli più importanti e, oggi, attrattivi è rappresentato dalla Abbazia di San Pietro in Valle a Ferentillo.
Le origini di questa abbazia si perdono nella leggenda. Probabilmente fu edificata sui resti di un precedente edificio, forse anch’esso costruito sui resti di una più antica villa romana o, più probabilmente, di un santuario pagano.
Alcune informazioni storiche sono comunque accertate: nel 491 d.C. un gruppo di trecento monaci siriaci, per sfuggire alle persecuzioni in Oriente si imbarcarono in direzione dell’Italia.
Accolti dal papa e con la sua autorizzazione evangelizzarono le popolazioni che vivevano sull’appennino umbro marchigiano dove il cristianesimo non era ancora molto diffuso. Alcuni di loro fondarono eremi e abbazie lungo la via Flaminia o in Valnerina e tra essi ci furono Lazzaro e Giovanni, della cui vita poco si conosce.
Dopo aver predicato a lungo nello Spoletino, intorno al 535 decisero di stabilirsi in una grotta alle falde del monte Solenne, poco lontano dal fiume Nera, che solcava la valle. Qui vissero in preghiera per decenni, finché, nel 575, Giovanni morì. Resosi conto che, ormai ultraottantenne, non avrebbe più potuto badare da solo a sé stesso, Lazzaro pregò allora san Pietro di aiutarlo. Secondo la leggenda l’apostolo apparve allora in sogno al fondatore del ducato longobardo di Spoleto, Faroaldo I, per invitarlo a cercare l’eremita e a costruire per lui un monastero nel quale pregare insieme ai suoi discepoli. Fu così che l’abbazia venne fondata.
In breve tempo il nuovo centro religioso divenne un importante punto di riferimento per tutto il territorio. Organizzata secondo la Regola benedettina, la comunità fu guidata per cinque anni dal santo eremita Lazzaro, divenuto nel frattempo abate, e alla sua morte abate divenne il suo discepolo Giacomo.
I tre eremiti e il duca furono sepolti in altrettanti sarcofagi posti sotto l’altare della chiesa, ove un tempo sorgeva, con ogni probabilità, un’ara pagana.
Il complesso, ormai abitato da numerosi monaci, si legò sempre più ai duchi longobardi di Spoleto, che lo dotarono di beni e ne fecero un centro di potere di notevole importanza.
Siamo nel 720 quando il duca Faroaldo II, dopo aver rinunciato al trono ducale, si fece monaco a San Pietro in Valle, e qui restaurò e ampliò gli edifici e vi morì nel 728. Sepolto anch’egli sotto l’altare della chiesa, è ora venerato come santo.
Poco dopo il nuovo duca di Spoleto, Ilderico, commissionò la realizzazione del celeberrimo pluteo, una delle più famose opere d’arte longobarda, all’artigiano Urso, come si deduce dall’iscrizione dedicatoria.
Nei decenni seguenti l’abbazia continuò ad ospitare duchi e potenti e accrebbe la sua influenza e la sua ricchezza.
Negli ultimi anni del IX secolo l’abbazia di San Pietro in Valle, fu presa, depredata e data alle fiamme, quindi fu abbandonata e rimase in rovina per un secolo circa. Solo nel 996, l’imperatore Ottone III di Sassonia, diede ordine di restaurare le chiese e i monasteri devastati dalle incursioni saracene.
L’abbazia di Ferentillo tornò in possesso dei propri beni e ricevette cospicui fondi per la ricostruzione. Durante i lavori furono rinvenuti, sotto l’altare, i corpi degli eremiti e di Faroaldo II e si provvide a dar loro nuove sepolture, dividendo i primi dal secondo. Con il passaggio del ducato di Spoleto allo Stato pontificio, l’abbazia passò sotto il controllo della basilica di San Giovanni in Laterano, a Roma, grazie al cui patrocinio furono intrapresi ulteriori restauri e forse in tale occasione fu realizzato il primo ciclo di affreschi della navata.

In seguito l’abbazia passò sotto il controllo della famiglia Ancaiani, da sempre legati alla sua storia, che la tennero come commenda fino al 1850, quando ne divennero proprietari. Agli inizi del secolo scorso l’ultima discendente degli Ancajani cedette la chiesetta al parroco di Ferentillo e vendette il convento a un privato. Oggi, dopo un intervento di ristrutturazione ultimato nel 1998, il complesso è stato trasformato in una raffinata residenza d’epoca.
Della prima costruzione della chiesa (VI – VIII secolo) oggi rimane la zona del transetto e delle tre absidi.
Saccheggiato dai Saraceni alla fine del IX secolo, il complesso era ridotto a poco più di un rudere quando, un secolo dopo, fu iniziato il restauro. All’epoca si procedette alla ricostruzione, mantenendo tutta l’area absidale e del transetto ed allungando l’unica navata centrale secondo modelli in vigore Oltralpe nella seconda metà del Mille. A questa età risalgono anche le sculture dei santi Pietro e Paolo che ornano il portale sud dell’edificio.
La chiesa ha un classico orientamento ovest – est; l’attuale facciata a capanna, rivolta verso l’antico accesso da Spoleto, risale alla fine del Quattrocento.
Il possente campanile a quattro ordini è databile alla fine del secolo XI è esternamente ornato con inserti scultorei di reimpiego di origine romana, longobarda e carolingia.

L’interno è a navata unica. Due colonne alte circa un metro posizionate appena dopo all’ingresso delimitavano l’accesso delle persone non battezzate dalle battezzate, che si posizionavano nella parte centrale della chiesa, a loro volta separate dal clero, cui era riservata l’area presbiteriale.
A destra dell’ingresso è presente un cippo votivo pagano che secondo la leggenda fu usato come base per il primo altare dei Santi eremiti Lazzaro e Giovanni.
L’abside, forse unica parte architettonica rimasta in piedi dell’edificio longobardo, presenta al termine dei pilastri dei capitelli corinzi romani reimpiegati nonché altri elementi architettonici appartenuti ad un edificio romano preesistente la chiesa.


Benchè l’interno si presenti spoglio di arredi è invece ricchissimo di interessanti ed antiche testimonianze artistiche. Innanzi tutto le lapidi romane e longobarde murate in una sorta di lapidario sulle pareti.
Nell’abside si trova l’altare che, secondo la tradizione, conserva i corpi dei fondatori, i Santi Lazzaro e Giovanni. Sarcofago e coperchio sono però di diversa provenienza.

Sul lato destro dell’altare è stata praticata una piccola apertura, protetta da una grata di ferro, la fenestrella confessionis, attraverso la quale erano visibili le reliquie dei santi monaci.
L’altare principale è costruito utilizzando due lastre scolpite a bassorilievo di epoca longobarda, che forse originariamente fungevano da divisorio.
Sul margine superiore sinistro di quella che è oggi il fronte dell’altare si legge una scritta in lingua latina:
“HILDERICVS DAGILEOPA + INHONORE(m) / S(an)C(t)I PETRI ETAMORE S(an)C(t)I LEO(nis) / ET S(an)C(t)I GRIGORII / PRO REMEDIO A(ni)M(ae)”
ovvero:
“Ilderico Dagileopa, in onore a san Pietro e per amore di san Leone e san Gregorio, per la salvezza dell’anima“.
Si tratta quindi del pluteo del duca Ilderico Dagileopa, che resse il ducato di Spoleto tra il 739 e il 742 circa. Decorata con motivi a girandola e a rosa (probabili simboli solari), la lastra presenta, al centro, ai piedi di tre croci due figure maschili barbute, con copricapo e tunica in atteggiamento orante e con le braccia alzate. Forse raffigurano a sinistra l’esecutore Urso, che si ritrae con lo scalpello in mano e firma orgogliosamente l’opera con la scritta VRSVS MAGESTER FECIT, a destra il committente della lastra, il duca Ilderico.

Secondo un’altra ipotesi, oggi più accreditata, anche la figura di sinistra rappresenta il duca Ilderico con in mano non uno scalpello ma lo scramasax, classico attributo militare longobardo, nella seconda il duca, spogliatosi dall’arma, riceve il battesimo, come testimoniato dalle due colombe e dalla coppa poste proprio sopra la sua testa, e si fa monaco.
Questo di San Pietro in Valle è uno dei rarissimi casi, nell’arte medioevale, in cui l’artefice firma la sua opera.
La lastra posteriore è interamente decorata con elementi tipici longobardi come i fiori a sei petali, le fuserole le cornici, gli intrecci di foglie e le fibbie.
A destra dell’altare un’altra urna romana in alabastro secondo la tradizione racchiude il corpo di Faroaldo II.
A destra della tomba di Faroaldo II vi è un altro sarcofago che fu forse il sarcofago del duca Ilderico Dagileopa, poi utilizzato per racchiudere i resti degli Ancaiani.

La chiesa è famosa soprattutto per i suoi affreschi databili al XII secolo con scene dell’Antico Testamento, a sinistra e del Nuovo, a destra.
Si svolgono sulle pareti della chiesa come in una finta galleria, in tre registri, di quadri inclusi in una finta architettura.
Le scene furono eseguite da due artisti sconosciuti e in due tempi diversi: dapprima l’Antico, poi il Nuovo Testamento. Probabilmente sono gli affreschi romanici più antichi dell’Umbria. Dovrebbero essere stati eseguiti nell’arco della seconda metà del secolo XI e, per la prima volta, qui si vedono movimento, prospettiva e naturalismo, si supera la staticità bizantina e si aboliscono le proporzioni gerarchiche.
Il ciclo fu riscoperto e liberato dalla scialbatura nel 1869. Le scene dell’Antico Testamento, sono quasi tutte abbastanza ben conservate, mentre sono perdute le prime del Nuovo. Molto meglio conservati i registri superiori, mentre la parte inferiore e piuttosto rovinata e le storie raccontate pressochè illeggibili.
All’interno della chiesa ci sono altri numerosi affreschi, votivi o decorativi, di notevole interesse, realizzati per lo più in un periodo compreso tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500.


Unico autore certo è il cosiddetto Maestro di Eggi, che intorno al 1445, ha affrescato il catino absidale raffigurando il Cristo Benedicente attorniato da angeli e Santi.
La pavimentazione è per due terzi risalente alla costruzione ottoniana, mentre la parte vicina al presbiterio è formata da lastroni di grandi dimensioni, probabilmente in relazione all’edificio romano originario. Da quel che rimane della pavimentazione dell’abside se ne deduce che doveva essere completamente coperta da un mosaico realizzato con tessere, pietre e marmi romani di reimpiego. Il mosaico rappresentava una croce a intreccio, decorata da pietre colorate con un motivo molto simile alle crocette auree longobarde.
Parzialmente visitabile è il monastero, proprietà privata trasformata oggi in struttura ricettiva.

Dopo aver attraversato lo spazio occupato dal corpo di guardia (dove erano un magazzino, un salone per accudire i pellegrini e l’alloggio del Padre Guardiano) si arriva al giardino panoramico dell’Abbazia di San Pietro in Valle, dove avveniva lo scambio di merci anche tra monaci e pellegrini.

Attraverso un arco si accede poi ad un chiostrino, dove era situata la vera e propria foresteria: su due piani erano situate le camere e un salone dove i monaci davano ricovero ai pellegrini. Questa zona è oggi destinata all’uso ricettivo.
Sul chiostro si affaccia la porta attraverso cui i monaci accedevano alla chiesa, ed è qui che troviamo a decorare l’ingresso due altorilievi raffiguranti San Pietro e San Paolo, risalenti forse all’XI secolo.

Vi aspetto per scoprire insieme San Pietro in Valle e altri gioielli dell’Umbria!
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MONIA MINCIARELLI
Laureata in Lingue straniere accompagno ormai da quasi 30 anni gruppi italiani e stranieri, ragazzi ed adulti, alla scoperta dell’Umbria e della sua meravigliosa natura. Amo la storia, ho un particolare interesse per Francesco d’Assisi e il francescanesimo così come per le visite “interattive”, riservate soprattutto agli studenti di lingua italiana che, con l’aiuto della mia “guida”, possono mettere in pratica quanto hanno studiato in classe e ampliare e/o rinforzare così le loro abilità linguistiche. Dopo un’esperienza pluriennale come docente esperto linguistico all’Università e agente di viaggio ho deciso di tornare alla mia prima passione, il lavoro di guida turistica ed escursionistica, e mettere a disposizione la mia esperienza per creare programmi particolari, inusuali e accattivanti anche per il visitatore più esigente perché ogni angolo d’Umbria diventi un luogo speciale in compagnia di una guida.